29 December 2012

Controllo di Gestione: qual è il valore delle opportunità perdute? Modelli a confronto


In un sistema economico nel quale le variabili in gioco accentuano costantemente la loro dinamicità, la Pubblica Amministrazione non può continuare ad affidarsi a strumenti di gestione antiquati e impostare l’architettura del processo decisionale basandosi su strutture adatte ad epoche ormai superate. L’aver operato per anni, se non addirittura decenni, facendo perno su output di difficile o impossibile misurazione, ha contribuito a calcificare nel pensiero amministrativo la convinzione che è possibile attribuire un valore al nulla. Da ciò è derivato un sistema di valutazione delle prestazioni privo di significato, utile solo per giustificare l’erogazione di retribuzioni variabili svincolate dagli effettivi risultati conseguiti, in quanto insignificanti o configurabili come tali. Poiché il processo di trasformazione in atto sembra inarrestabile è, quindi, inaccettabile che gli obiettivi da realizzare siano, ancora oggi, individuati ricercando l’esistenza di punti di contatto con una filosofia che si ottiene dall’esclusiva logica applicativa della regola. Storicamente (Figura n° 1), era la norma a costituire il fattore motivante, in quanto rappresentava, all’interno di un quadro di riferimento, un esito perfettamente conosciuto e aderente alle aspettative e, pertanto, sempre realizzabile seguendo i passi suggeriti dal testo elaborato dall’autore della legge, interpretandola alla lettera. In ambito pubblico non era necessario scatenare tempeste neuronali per risolvere i problemi, ma era sufficiente avere una forma mentis limitata ad assegnare alle parole contenute in un volume giuridico il medesimo significato voluto dal legislatore.


 In questo modello, il processo di feedback è mirato a rivedere il modus operandi per rinforzarlo (positivamente o negativamente), implicando un’analisi critica della giurisprudenza, anziché mettere in discussione il procedimento seguito per rispettare l’assioma normativo. In caso di divergenza tra risultato atteso ed effettivo, il movente va ricercato nella potenziale distorsione interpretativa del testo di legge e nulla può essere addebitato al comportamento tenuto dagli operatori. Lo schema manifesta in tutte le direzioni l’impossibilità di individuare le cause derivanti dal mancato raggiungimento di un obiettivo, in quanto l’assenza di movimento decisionale indotta dal legislatore, rende vana la ricerca di responsabili. In epoche più vicine alla realtà (Figura n° 2), si è compiuto uno sforzo cerebrale per assegnare al target la funzione di stimolo, affinché il cammino giuridico tracci il comportamento da adottare, per far sfociare, nel risultato atteso, la conseguenza indotta dall’azione.


 Il modello proposto impone che sia l’obiettivo a sollecitare l’adozione, da parte degli operatori, di una specifica condotta entro i binari della norma, agendo nella direzione del soddisfacimento delle aspettative. L’orientamento dello schema indirizza il meccanismo di feedback sull’obiettivo, verificando se lo stesso può accompagnare verso lo scenario desiderato, oppure rende necessaria la sua rivisitazione, spostando, in ultima analisi, il bersaglio. Se il risultato non è raggiunto, l’illustrazione delle ragioni va individuata nel recinto del potere decisionale, all’interno del quale va imputata l’incapacità di governare il cambiamento in atto, che si è limitato a recepire passivamente la dinamica degli eventi per giustificare, a posteriori, l’estraneità a responsabilità di gestione. Il fallimento delle due precedenti impostazioni ha concorso ad elaborare una nuova riflessione mirata allo sviluppo di un approccio orientato al futuro e costruito approfondendo le possibili evoluzioni del contesto di riferimento, anziché ancorare le conclusioni al rispetto delle risultanze del trend storico. In futuro (Figura n° 3), anche se il ritardo lo si percepisce già, lo stimolo all’azione dovrà essere individuato nel risultato atteso, affinché il modo di agire accompagni verso un percorso condivisibile e sostenibile e la conseguenza si concretizzi nell’aver centrato l’obiettivo.


 In questo caso, il processo di feedback non metterà in discussione né l’obiettivo realizzato, né l’applicazione di una specifica metodologia, ma la razionalità dell’aspettativa dei risultati. Infatti, solo mettendo in discussione i procedimenti adottati fino ad oggi, si potranno toccare con mano i benefici conseguiti prima che la somma delle opportunità perdute assuma dimensioni insanabili. Se la strategia è quella di perdere ancora del tempo per modificare lo stato delle cose prima di sperimentare qualcosa di innovativo, vorrà dire che si continuerà inutilmente a pretendere nuove soluzioni applicando tecniche già collaudate. In altre parole, volutamente si ignora che oltre cinquant’anni fa Albert EINSTEIN aveva sostenuto: «Follia è fare sempre la stessa cosa aspettandosi risultati diversi». Quante opportunità si devono ancora perdere?
Autore: Emanuele COSTA
Pubblicato su: Semplice5/2011 con il titolo «Controllo di Gestione: qual è il valore delle opportunità perdute? Modelli a confronto»

14 December 2012

Gestione dell'acqua: questione di "liquidità"?

E’ inutile nascondere che, in un’economia di mercato, il profitto segnala all’impresa la capacità di sopravvivenza nella giungla concorrenziale. Una risorsa generata dalla gestione che attesta il successo di una formula imprenditoriale e manifesta la remunerazione del capitale investito in una specifica attività. Ciò che, però, lascia ancora qualche margine di perplessità è quella situazione in cui il Comune rinuncia ad amministrare direttamente beni/servizi, come la risorsa idrica, per cedere al privato anche l’opportunità di conseguire ulteriori benefici dal rialzo dei prezzi di vendita. Anziché governare in proprio l’incremento tariffario, destinando i maggiori introiti al miglioramento di servizi essenziali senza chiedere nuovi sacrifici ai Cittadini o riducendo la pressione fiscale, si preferisce eliminare dalla filiera quelle attività non istituzionali dalle quali, miracolosamente, solo il privato sembra avere le capacità di creare ricchezza. La risposta al dilemma è banale: con la cessione al mercato degli acquedotti pubblici si voleva perseguire l’obiettivo di salvaguardare l’erogazione del servizio, rendendolo, al tempo stesso, più efficace ed efficiente, con la conseguente finalità di abbattere i costi operativi ed, in ultima analisi, l’onere a carico del Contribuente. Peccato che, di fronte ad un proposito così lodevole, oggi i Cittadini si chiedono cosa non abbia funzionato. In altre parole: siamo sicuri che il privato ha saputo sostituirsi al soggetto pubblico, migliorando la gestione del servizio idrico e, a posteriori, la soddisfazione del cliente? Ciò che in passato era assicurato da una gestione burocratica, inefficace, inefficiente, poco orientata al cliente, ma a buon mercato, oggi è garantita da altri soggetti, con la triste e unica conseguenza che l’elemento discriminante tra le due gestioni (pubblica e privata) è rappresentato dal prezzo pagato ogni volta che si apre il rubinetto dell’acqua. L’interrogativo che rimane ancora senza risposta è che, probabilmente, gli aumenti tariffari siano serviti, prima, per assicurare un immediato rientro al capitale impiegato e, poi, per finanziare altre forme di investimento. In aggiunta a ciò, spesso si dimentica che la politica di outsourcing dei servizi pubblici pesa in doppia misura sulle tasche dei Cittadini: attraverso aumenti di prezzo, decisi dal privato, e maggiori imposte per coprire i costi dei servizi istituzionali, deliberati dal pubblico. Il Cittadino può però stare tranquillo: la gestione dell’acquedotto è rimasta una fonte di liquidità!
Autore: Emanuele COSTA
Pubblicato su: Il Secolo XIX del 13 settembre 2008 con il titolo «Gestione dell'acqua: questione di "liquidità"?»

5 December 2012

Polizze assicurative senza estensione della garanzia ai casi di "colpa grave"


L’articolo 59 - comma 3 - della Legge n° 244/2007 (Legge Finanziaria 2008) ha recepito, all’interno di una norma, la consolidata giurisprudenza della Magistratura Contabile che, in più occasioni, si era pronunciata contro il pagamento, da parte degli Enti Pubblici, degli oneri derivanti dall’estensione della garanzia ai casi di “colpa grave” per le polizze assicurative che prevedono questa possibilità (Polizza “Patrimoniale” e “Tutela giudiziaria”). Assunto che rivive, con sfumature differenti, ma più pregnanti, il contenuto della Sentenza della Corte dei Conti - Sezione Giurisdizionale - della Regione Umbria n° 553/2002, nella quale si affermava l’impossibilità di stipulare, con spesa a carico del bilancio, polizze assicurative a favore dei propri Amministratori o Dipendenti che, nell’esercizio delle loro funzioni, si erano resi responsabili di comportamento gravemente colposo. Nel dettaglio, la norma di legge non solo sancisce la nullità dei contratti stipulati (o in essere) con decorrenza dal mese di luglio 2008, ma associa l’eventuale mantenimento (o proroga) delle garanzie assicurative ad una sanzione, a titolo di danno erariale, corrispondente a dieci volte l’entità dei premi indicati nel contratto assicurativo. Il divieto assoluto ad agire come in passato implica dei riflessi sulla procedura di scelta del contraente al quale affidare la fornitura del servizio assicurativo, in quanto le recenti interpretazioni giuridiche della Corte dei Conti (si veda il parere n° 57/2008 della Sezione Controllo della Corte dei Conti della Regione Lombardia) non solo hanno esteso il concetto di “Amministratore” alla categoria più ampia dei dipendenti pubblici, ma hanno altresì previsto l’impossibilità per l’Ente sia di mandare in gara la polizza completa dell’appendice relativa alla “colpa grave”, sia di anticipare il premio in nome e per conto dell’Amministratore/Dipendente da assicurare. Alla luce delle nuove disposizioni, quindi, l’Ente dovrà procedere alla scelta del contraente per la fornitura del servizio assicurativo, limitando le condizioni di polizza alla copertura della responsabilità civile, demandando ad ogni soggetto interessato alla tutela della garanzia per “colpa grave” alla stipulazione di una polizza personale separata da quella dell’Amministrazione Pubblica presso la quale lavora.Il risultato generato dalla norma per l’Ente si manifesta nella semplificazione amministrativo/contabile derivante dalla gestione dei contratti assicurativi personali, mentre il rischio di un maggior onere (non solo economico) derivante dall’estensione della garanzia ai casi di “colpa grave” inciderebbe esclusivamente sugli Amministratori/Dipendenti che dovranno scegliersi autonomamente la Compagnia di Assicurazione disposta ad emettere un’appendice ad una polizza che potrebbe essere stata sottoscritta con un altro soggetto.
Autore: Emanuele COSTA
Pubblicato su: Semplice10/Ottobre 2012 con il titolo «Polizze assicurative senza estensione della garanzia ai casi di "colpa grave"»

22 November 2012

Chi teme la globalizzazione?

Il fenomeno della globalizzazione, come ha mirabilmente definito Sergio GREA («Dentro l’impresa del duemila», Franco Angeli, 1998), porta ad una apparente contraddizione: «Il mondo si è rimpicciolito ed i mercati si sono allargati». Tuttavia, è sufficiente guardarsi intorno per scoprire con assoluta meraviglia che, in realtà, non c’è alcuna inconciliabilità perché ogni scambio, soprattutto quello delle informazioni, richiede l’istantanea durata di un semplice click. Questa situazione non può certamente considerarsi un elemento negativo, poiché i mercati più lontani sono diventati accessibili a chiunque alla stregua di quelli ubicati dietro l’angolo. Ragionare in ottica feedforward e non più con accentuata miopia strategica consente di adeguare la propria abilità, capacità, competenza, conoscenza, esperienza e professionalità in tempo reale. In altri termini, ciò significa prosperare o, nella peggiore delle ipotesi, sopravvivere. Al contrario, non riuscire o non sforzarsi di capire quello che accade intorno, trascurandone volutamente i segnali, significa la fine o, comunque, la crisi. In alter parole, chi è in grado di pensare all’impensabile vince! Dove si colloca allora il problema? La questione non è incentrata su chi teme l'effetto della globalizzazione, ma chi, al contrario, non desidera in nessun caso confrontarsi con gli altri. Occorre liberararsi di quella classe dirigente arcaica ed obsoleta, che per paura di soccombere di fronte al progresso, impedisce alle idee in possesso dei talenti di manifestarsi liberamente. Oggi la globalizzazione dei mercati ha cambiato il mondo del lavoro. In un recente passato, le persone ritenevano normale (al pari di un diritto inviolabile) trascorrere l’intera vita lavorativa presso il medesimo datore di lavoro, spesso localizzato nelle vicinanze della propria residenza. E’ ormai un dato di fatto (che piaccia o meno) come il passare da un’Organizzazione ad un’altra consente all’individuo di arricchirsi di nuove esperienze, che gli consentono non solo di accrescere la propria professionalità, ma di potersi confrontare con diverse prospettive di carriera. La mobilità delle risorse umane non solo rappresenta la realtà, ma è diventata una vera e propria esigenza. Non è più ammissibile pensare di vivere sugli allori o sulle rendite di posizione, ma occorre considerarsi perennemente in viaggio verso nuove e migliori opportunità. Nulla vieta di manifestare la preferenza di trascorrere l’intero ciclo di vita lavorativa in un contesto asfittico, privo di cambiamenti, dove regna sovrano l’immobilismo assoluto, mettendo in preventivo la rassegnazione, ossia senza pretendere nulla di meglio di ciò che passa il convento. Il mondo gira sempre più veloce ed in futuro lo sarà ancora di più. Solo chi, con spirito camaleontico, saprà adattarsi ai nuovi scenari, cogliendo al volo il treno della prosperità, sarà in grado di garantirsi un posto privilegiato in prima fila e configurarsi come risorsa umana degna e meritevole di appartenere al contesto della forza lavoro occupata.
Autore: Emanuele COSTA
Pubblicato su: Il Nuovo Picchio11/Novembre 2012 con il titolo «Chi teme la globalizzazione?»

13 November 2012

Controllo di Gestione: l'importanza di un sistema integrato di "information resource"

Il Controllo di Gestione negli Enti Locali non consiste in un insieme di attività a sé stanti, ma in una loro sequenza logica, interagendo a pieno titolo con tutti i processi sviluppati internamente. Il target che l’operato del controller si prefigge è quello di mettere in luce il livello di efficacia ed efficienza dell’attività amministrativa, al fine di individuare e, in un secondo momento, correggere od eliminare carenze di natura organizzativa. La finalità, per essere realizzata, necessita della costruzione e successiva elaborazione di una serie di report ad alto contenuto informativo, in modo da descrivere tutte le potenziali criticità gestionali, stimolando la ricerca di soluzioni condivise. Infatti, è grazie al reporting che tutti i dati sono raccolti e selezionati per renderli idonei a supportare il processo decisionale, affinché si possa tradurre in azioni che producono risultati. Il fattore economicità, pur essendo una componente importante di qualsiasi output, riveste un ruolo “secondario” all’interno dell’Ente Locale poiché, nella maggior parte dei casi, si tratta di attività no profit, impostate nel rispetto di scelte di opportunità politico/sociale. Il loro impatto in termini di costi/benefici, quindi, può essere valutato solo figurativamente, anziché nella volgare contrapposizione proventi/oneri o dal desueto confronto entrate/uscite. Per realizzare gli obiettivi, che sono l’ossigeno che tiene in vita il Controllo di Gestione, occorre attingere importanti informazioni sia dal sistema di contabilità esistente (finanziaria e/o economica), sia dallo sviluppo di indicatori definiti “sensibili”. Questi ultimi non devono assumere la forma di più o meno complesse relazioni matematiche dalla quali far scaturire risultati da interpretare. Possono anche consistere in documenti dalla cui combinazione contenutistica possono estrapolarsi considerazioni più o meno argomentate, utili per analizzare lo sviluppo di un fenomeno. In altre parole, si tratta di strumenti segnaletici che mettono a disposizione dell’analista importanti notizie sull’andamento della gestione, illustrando il percorso evolutivo di un avvenimento in termini di miglioramento/peggioramento rispetto al trend storico o prospettico. Emerge, quindi, con prepotenza la necessità di assegnare un ruolo fondamentale all’information resource, spesso assente negli Enti Locali, ma necessaria per una più corretta interpretazione dei dati scaturiti dalle continue operazioni di monitoring sulle attività. Occorre attivarsi per consentire che l’informazione alimenti costantemente il meccanismo decisionale, fornendo elementi utili a ridurre al minimo gli errori, ma anche il loro perpetuo ripetersi. E’ opportuna una raccolta di tutti i dati attinenti le operazioni sviluppate nell’Organizzazione per tradurli, attraverso appropriate elaborazioni, in risorsa informativa, la cui illustrazione sintetica o dettagliata (nei casi più complessi) è messa in luce nei report. Bisogna prendere atto che l’informazione, alla stregua di qualsiasi prodotto finito, non si trova allo stato grezzo in natura, ma è il frutto di un processo di elaborazione (assimilabile a quello tecnico di trasformazione) attraverso il quale il dato (che costituisce la materia prima) è convertito in informazione e, quindi, in conoscenza (che rappresenta il prodotto finito).
Autore: Emanuele COSTA
Pubblicato su: Semplice9/Settembre 2012 con il titolo «Controllo di Gestione: l'importanza di un sistema integrato di "information resource

7 November 2012

Over the economy

Today, a new adventure begins. As the title says, this experience wants to take the reader over the economy. It is an hard work, which wants to involve people inside the theories and, meanwhile, invite persons to develop a personal opinion about the topic. In fact, we are not going to talk only about economy. We are going to study other social problems. Nowadays, these questions are influencing the economic situation of a country and both the Institutions and the Citizens, too. As all social sciences, the economy elaborates thoughts and realizes models, with which affect the individual behaviour. Because of this it is possible to verify whether the theory is right or if the effects are different. This is the main question of the economy. At the same time, this is the winning hand of a science which always has to discuss about inputs and also their mix in an unstable contexts where the variables change everyday than in the past. So, a border drawn by an economic model, today it should be revised because the lifestyle is changed and it is not always predictable and reasonable. This situation shows that a magic formula does not exist to solve all problems. As Gianfranco FINI wrote in his book called "L'Italia che vorrei", the economic crisis is a real example and «everybody, including most important economists, have to work hard, revising rules and key points that, until yesterday, looked like right». About fifty years ago, Paul VALERY said: «The trouble of our times is that the future is not as in the past». For the reasons above mentioned, the challenge wants a better future than the past. All the mistakes can help us to prevent them and understanding the others way of thinking. Otherwise, we have to accept to take the risk of precluding the possibility of a cultural growth, respecting the Rabindranath TAGORE's thought: «If you close the door to all errors, even the truth will stay out».
AuthorEmanuele COSTA
Published byIl Nuovo Picchio n° 3/Dicembre 2011 with the title «Oltre l'economia»

24 October 2012

Verso una società fondata sull'ignoranza

Da un paio di mesi fioccano sui social forum gli inviti a partecipare a gruppi che inneggiano ad isolare la Cina e, quindi, a boicottarla non acquistando i prodotti provenienti dal quel paese asiatico. Ma davvero la Cina va considerata la madre della crisi economica? O, forse, dovremmo indagare a fondo sul perché le nostre imprese preferiscono localizzare la produzione in estremo oriente? In altre parole, la diatriba dovrebbe aggiustare la mira, spostandola dal consumo finale di prodotti al processo di produzione. Infatti, è sufficientemente chiaro che quando un'impresa decide strategicamente di delocalizzare la produzione all'estero, lo fa per il semplice motivo che i costi da sostenere sono sensibilmente inferiori. Operando in tal senso potrà riuscire a sopravvivere nella giungla concorrenziale, anziché fallire miseramente, soffocata dalla miriade di cavilli burocratici imposti all'imprenditoria. Il problema, in altri termini, dovrebbe focalizzarsi sui prezzi dei prodotti nazionali "made in China" venduti in Italia. Se la loro produzione avviene a costi decisamente ridotti, altrettanto "stracciati" dovrebbero essere i prezzi di vendita. E' difficile, in un contesto simile, comprendere le ragioni di chi si lamenta che le tasse imposte dal Governo sono troppo alte, ma non adotta lo stesso comportamento quando deve giudicare quelle imposte dal Settore privato (ossia i prezzi). Su questo aspetto c'è una differenza sulla quale occorre riflettere. Infatti, mentre le tasse servono anche per mantenere in vita uno stato sociale che tutela i più bisognosi, i prezzi servono solamente per assicurare un egoistico profitto agli imprenditori. Ciò non vuole assolutamente significare che una impresa privata non abbia il sacrosanto diritto di conseguire un guadagno dallo svolgimento della sua attività. Esiste, però, una sostanziale differenza tra "profitto" e "speculazione", specie se condotta a scapito di coloro che non possono intervenire nel processo decisionale o sono costretti solo ed esclusivamente a sopportarne le conseguenze. Alla luce di questa riflessione, la Cina non solo attira su di sé un ingente volume di investimenti stranieri. Inoltre, mentre il paese asiatico agisce, legittimamente, per tutelare i propri interessi, l'Italia sta passivamente ad aspettare l'arrivo di tempi migliori. Tuttavia, il benessere nazionale non è una manna proveniente dall'alto dei cieli, ma il risultato di sacrifici fatti di duro studio e lavoro. Se il nostro Paese non riesce a esportare i propri prodotti, come può pretendere di venderli sul mercato locale? Forse, scendendo nel profondo della questione, è possibile individuare una ragione. Analizzando la situazione del paese asiatico, è facile accorgersi come sia presente in tutto il mondo non solo dal punto di vista produttivo, ma anche sotto il profilo dell'acquisizione di abilità, conoscenza ed esperienza. I migliori siti universitari pullulano di studenti con gli occhi a mandorla affamati di sapere ed apprendere. In altri termini, sono consapevoli che il futuro apparterrà a coloro che credono nella diversità culturale e solo con la conoscenza si potrà garantire un benessere migliore. Guardando in casa nostra, è facile individuare come l'andazzo generale dei giovani sia improntato al menefreghismo più radicale, fatto di passeggiate ripetitive di pomeriggio nei vicoli oppure di soste permanenti davanti ad un pub, con il bicchiere in una mano e la sigaretta nell'altra, a gareggiare su chi esprime la banalità più assurda, piuttosto che trascorrere il tempo libero sui libri di scuola per assicurarsi un lavoro ed una prospettiva migliore. Se questa è la fotografia dell'Italia, viene da domandarsi: è veramente tutta colpa della Cina?
Autore: Emanuele COSTA
Pubblicato suIl Nuovo Picchio n° 10/Ottobre 2012 con il titolo «Verso la società dell'ignoranza»

8 October 2012

Chi è l'autore dell'articolo?

Ogni volta che la stampa riporta notizie sui criteri di gestione della res publica, una domanda sorge spontanea: «Chi è l'autore dell'articolo?». L'interrogativo sembra banale perché è sufficiente avere la pazienza di leggerne il contenuto per scoprire, dopo la punteggiatura finale, chi l'ha scritto. Il problema, tuttavia, non si risolve con questo minimo impegno mentale, perché se si ignorano i meccanismi usati nell'amministrazione dei beni pubblici, erroneamente si è portati a credere, senza alcuna colpa, alle parole impresse nero su bianco sul quotidiano acquistato, confidando sul fatto che le stesse corrispondano a verità. Spesso, però, chi scrive non è a conoscenza se le procedure adottate e gli strumenti utilizzati per garantire la massima trasparenza siano conformi alla normativa vigente ed idonei ad assicurare il raggiungimento degli scopi prefissati. Questo si verifica perché il soggetto deputato al racconto di un episodio ripone la massima fiducia nel testo del comunicato stampa divulgato da quell'Ente interessato a diffondere uno specifico messaggio. Ecco perché se si ha l'intenzione di entrare nel dettaglio del percorso seguito per individuare un potenziale contraente, è meglio stendere un velo pietoso. L'articolo pubblicato potrebbe correre il rischio di alterare la realtà dei fatti, attribuendo impropriamente agli Amministratori particolari abilità e capacità nel risolvere questioni delicate. Se poi si esagera negli elogi, assimilando queste peculiarità a quelle di un individuo dotato di assi nella manica, allora è necessario iniziare a preoccuparsi seriamente. Infatti, amministrare il patrimonio pubblico richiede non solo serietà, ma anche etica e moralità. Questo non vuol dire comportarsi come giocatori d'azzardo nella speranza di portare a casa una consistente posta in palio, a meno che non si abbia la certezza di vincere. Circostanza che è riservata solo a quei soggetti che, in partenza, sono coscienti di avere un asso nella manica, ossia i bari, per sfuggire al rispetto delle regole del gioco, che in ambito amministrativo pubblico si chiamano leggi. La Pubblica Amministrazione, a maggior ragione, non deve sfruttare l'asimmetria informativa a proprio vantaggio, altrimenti metterebbe a repentaglio l'osservanza del principio di trasparenza che deve guidare l'intera azione amministrativa. Pertanto, gli Uffici non dovrebbero improntare la propria condotta al moral hazard, anche se gli stimoli (o le pressioni) ad operare in tal senso provengono dalla componente politica. Si rischierebbe di generare quel conflitto di competenze che, nell'ingerenza degli Amministratori nella gestione, rappresenta il principale elemento di disturbo del buon andamento e imparzialità dell''azione amministrativa sancito dalla Costituzione. Se così fosse, sarebbe opportuno sollecitare l'apertura di un'indagine approfondita sul modus operandi degli Amministratori pubblici, per verificare se combacia con le norme vigenti. In caso contrario, l'azzardo sarebbe perpetuato rendendo pubbliche l'adozione di decisioni per raggiungere un obiettivo, ma perseguendo, in realtà, altre finalità senza comunicarle a nessuno.
Autore: Emanuele COSTA
Pubblicato su: www.tigulliana.org del 15 ottobre 2011 con il titolo «Chi è l'autore dell'articolo?»

1 October 2012

Culture: oxygen for the brain

People often ask themselves why the Public Administration is unable to satisfy citizen demands, providing them all that they require. It is not difficult to reply to that question because it is possible to analyse the matter using the "elephant test". Whatever is the scenario, the meaning does not change. It does not matter whether the territory managed by the government is more or less wide because capabilities do not depend neither on the civil servants' age, nor on their experiences, but simply by the culture used to deal with problems. The government of the City (or of the Country) is generally managed by close-minded persons with a shortsighted strategic vision, unable to take useful decisions and inadequate to keep pace with both cultural and technological development. Many times, citizen requests do not have a right attention by the government because they are in contrast with the main political ideas, which are managed haphazard and are inspired by the "Michelaccio's art". When problems arise, it is better looking at elsewhere or shrugging, handing the cask off and leaving it rolling inside the bureaucratic forest. That is, problems are never solved, but much more conveniently removed. This modus operandi works surely until some astonishing event happen. In that case, the Public Administration inability falls into the public domain, forcing it to take on its job, for which taxes are paid by citizens. Generally, if the ordinary man protests against politician behaviour, immediately they react destroying the target: both the freethinking and the political critique. The administrative machinery start working in the worst way, trying to teach a lesson to whom had contested misbehaviour of politicians, who are not exempt from errors. Instead of thinking about suggestions and opinions made by citizens, analysing them and looking for different solutions to social problems, politicians use the worst censorship remembered by history. We are light years far from that galaxy set up by foresighted politicians. We must be sadly pleased of the ones who play by ear, causing both irreparable and irreversible damages. So, why are not politicians worried about mistakes during their political mandate? The answer is simple. Citizens are the only ones who must pay damages, also suffered ones.
Author: Emanuele COSTA
Published byhttp://www.tigulliana.org28 luglio 2012, «Cultura: ossigeno cerebrale»

26 September 2012

Democrazia e potere

In ogni democrazia degna di tale nome, solitamente ci si interroga costantemente in merito alle decisioni portate avanti da coloro che detengono lo scranno del potere. In parole povere, la questione oggetto di riflessione è perennemente quella che ruota intorno al dilemma irrisolto se una maggioranza congressuale o parlamentare sia sufficiente a configurare il pieno rispetto delle regole democratiche. E' proprio su questo aspetto che, generalmente, i mestieranti della politica saliti, fortunosamente o rocambolescamente, agli onori della cronaca tendono a commettere puerili errori di interpretazione e valutazione. Non è sufficiente, infatti, pretendere che una deliberazione approvata dalla maggioranza assembleare conferisca ad un governo piena autorità e diritto di portare avanti quella decisione. In un regime dove il significato di democrazia sia veramente rispettato, la popolazione, tendenzialmente, ottiene quello che chiede, e, cosa ancora più importante, in genere non riceve quello che non chiede. Il risultato della competizione democratica non dipende solo dal rispetto delle procedure e delle regole, che sono così preservate, ma anche dal modo in cui le diverse alternative esistenti e possibili sono usate dai Cittadini che non occupano una poltrona nell'assemblea rappresentativa. E' un concetto che si spinge oltre la generale filosofia di pensiero. Per questo è sempre più necessario ed opportuno uscire dagli schemi collaudati del proprio tornaconto personale per andare al di là di quella visione miope che appartiene a coloro che sono in possesso di una cultura campanilistica. Questa è una delle ragioni per cui è fondamentale avere l’abilità e la capacità di tesaurizzare esperienze vissute e raccontate, con profonda umiltà, da personaggi che hanno rivestito cariche politiche importanti e hanno percepito che qualsiasi sfida futura può essere vinta solo se tutti i partecipanti al gioco sono alla fine trionfatori. Ben lungi dal voler affermare che ogni manifestazione di volontà politica debba essere improntata al compromesso. In quest’ultimo caso, infatti, la risultante si è rivelata il più delle volte un mero fallimento, perché nessun beneficio ne ha tratto la collettività. Ciò che, al contrario, si vuol cercare di far comprendere è che qualsiasi decisione che impatta sui Cittadini deve essere del tipo “win-win”, sia per chi la adotta, sia per coloro sui quali si produrranno le conseguenze. Questa è la direzione verso la quale deve tendere l’esercizio del potere da parte di amministratori. Essenziale è che essi devono essere disinteressati a raccogliere frutti personali, o di breve periodo, per consentire a tutti indiscriminatamente di poterne trarre vantaggi perpetui. A poco serve aggredire con supponenza gli avversarsi, vomitandogli addosso i peccati commessi nelle precedenti gestioni. Sarebbe maggiormente produttivo fargli capire che le deliberazioni adottate non hanno prodotto i risultati sperati o, in alternativa, hanno avuto un contenuto scarsamente lungimirante, tamponando un’emergenza del momento e creando le premesse per un disastro futuro. La lezione storica, però, non sembra aver sortito alcun effetto, anzi pare aver rinforzato comportamenti devianti rispetto all’interesse pubblico. E' un discorso articolato e complesso, ma che sicuramente trova ampio consenso nelle parole espresse, con grande chiarezza, da Fidel VALDEZ RAMOS (ex Presidente delle Filippine) durante un discorso tenuto nella città di Canberra presso la sede dell'Università nazionale australiana il 26 novembre 1998. L'occasione era la relazione inaugurale sul tema "Democracy and the East Asian Crisis" tenutasi al Centre for Democratic Institutions. Il suo intervento, di cui si riporta uno stralcio, è a distanza di anni ancora di grande importanza per ciò che significa la democrazia. Egli affermò: «Sotto un regime dittatoriale la gente non deve pensare né scegliere, non deve prendere decisioni o dare il proprio assenso. Deve solo eseguire ... Una democrazia, al contrario, non può sopravvivere senza virtù civica! ... Oggi, la sfida politica che ci sta davanti in tutto il mondo non è solo quella di sostituire dei regimi autoritari con regimi democratici. E' più di questo: è far funzionare la democrazia per la gente comune». Se si rilegge il contenuto di questo ragionamento è facilmente comprensibile come nella società di oggi avvenga l’esatto contrario. E mano a mano che si scende dal governo nazionale a quello locale più si acquisisce la consapevolezza di trovarsi agli antipodi della democrazia. Le decisioni non sono assunte per andare incontro ai bisogni dei Cittadini, ma per soddisfare pruriti dei governanti che non hanno alcuna finalità se non quella di sperperare il denaro pubblico. Questa cattiva abitudine nasce da un impellente bisogno da soddisfare: la visibilità. Erroneamente, è convinzione diffusa che essere persistentemente in primo piano faccia acquisire d'ufficio un certo potere. Ma quale vantaggio personale si ottiene ad apparire sui media quotidianamente? Sicuramente, uno dei benefici è quello della conquista artificiosa di una credibilità immediata, che, immacabilmente, è poi smentita dai fatti. Quindi, spesso accade che la visibilità a lungo andare si traduca in un boomerang, perchè il Cittadino conosce perfettamente il personaggio politico al quale attribuire le colpe di tutto ciò che non funziona come dovrebbe. Non è un caso, infatti, che quando le cose procedono bene senza attriti, la mancanza del ruolo strumentale della democrazia può anche non essere percepita. Emerge, però, con prepotenza quando, per una ragione o per l'altra, la situazione inizia a complicarsi. Ed è allora che gli incentivi politici forniti dalla forma di governo democratica acquistano un grande significato pratico. Ad esempio, capita spesso che quando un politico matura la convinzione di rendere pubblica una notizia, lo fa per nasconderne un'altra dalle conseguenze ancora peggiori. Come sosteneva Francesco GUICCIARDINI nel Cinquecento, si tratta di quelle decisioni prese nei corridoi del potere, che devono restare confinate dietro quella cortina fumogena che oppone il palazzo alla piazza. In altre parole, si realizza quel paradosso secondo il quale il popolo sa quello che fa chi governa, o della ragione perché lo fa, quanto delle cose che si fanno in un posto sperduto nel mondo. L'evidenza ha trasmesso involontariamente una pesante eredità: il potere è più difficile da conquistare che non conservare. E questo può costituire l'anello debole del sistema democratico, perché il consenso elettorale una volta esercitato non ha più alcuna possibilità di essere nuovamente verificato fino al termine della legislatura. Ed è proprio durante questo lasso temporale che chi detiene il potere inizia a mettere le radici, riuscendo incredibilmente a calamitare vicino a sé il peggio della società civile, piuttosto che gli appartenenti alla classe elitaria del mondo culturale e intellettuale. Questo è il tumore della democrazia, che riesce a fondare la sua sopravvivenza sui leccapiedi e non sulle persone capaci e valorose. Ossia, sui "ben disposti" piuttosto che sui "predisposti". A tutto c'è però non solo un limite, ma anche un rimedio. Infatti, il sistema può essere scardinato se si consentono e si incoraggiano discussioni aperte su ogni materia che impatta sulla collettività. Lo aveva già fatto osservare Vilfredo PARETO in un celebre passaggio del suo “Manuale di economia politica” (1906): «Se un certo provvedimento A sarà cagione della perdita di una lira ciascuno per mille uomini, e del guadagno di mille lire per un solo uomo, quest'uomo opererà con grande energia, quei mille uomini si difenderanno fiaccamente, onde è molto probabile che, infine, vincerà quell'uomo che, col provvedimento A, mira ad appropriarsi di mille lire». Nel contesto attuale, il conseguimento di un interesse economico per effetto dell’influenza politica è un fenomeno assai diffuso. Riprendendo l'argomentazione trattata da Vilfredo PARETO, possono esserci mille persone i cui interessi sono lievemente danneggiati da una politica sfacciatamente favorevole a quelli di un solo uomo d'affari. Una volta, però, che la fattispecie sia compresa in modo chiaro, è più facile che si riesca a formare una maggioranza contraria alle sue egoistiche richieste. Questa dialettica si posiziona sul terreno ideale per impiantare una discussione pubblica delle tesi e controtesi di entrambe le parti, perché in una democrazia aperta, l'interesse collettivo potrebbe anche avere ottime probabilità di battere la difesa, per quanto esagitata, degli interessi consolidati di una lobby.
Autore: Emanuele COSTA
Pubblicato su: Il Futurista del 09 settembre 2011 con il titolo «Qui tra democrazia e potere si è rotto qualcosa»

18 September 2012

Goodbye Italy!

Che sensazione si prova quando si decide di lasciare il proprio Paese? Un interrogativo al quale è arduo fornire una risposta esaustiva o impulsiva. Infatti, ogni essere umano percepisce, nel proprio intimo, un sentimento differente da quello di un altro. Spesso, quando il pensiero si orienta in quella direzione, un brivido indescrivibile attraversa il corpo, in un mix di ansia ed eccitazione. Si matura lentamente la consapevolezza di abbandonare affetti, amicizie, esperienze e ricordi di una vita passata. Si lascia alle spalle un Paese allo sbando, depredato di tutte le sue ricchezze da una classe dirigente che, soprattutto negli anni più recenti, ha manifestato una completa incapacità di investire nel futuro collettivo, attratta (o volutamente distratta) da altri interessi più profittevoli. Chi oggi decide di partire dal Bel Paese lo fa con uno spirito meno avvolto dalla tristezza rispetto a qualche anno fa. L'inesorabile trascorrere del tempo ha consentito di maturare una convinzione: ovunque si rivolga lo sguardo non si dovrà lottare contro una burocrazia che soffoca la libera iniziativa e, soprattutto, la meritocrazia, con l'obiettivo di preservare all’infinito rendite di posizione. Dovunque si vada non occorrerà combattere contro meccanismi arruginiti che necessitano di lubrificante ogni volta che si desidera muovere gli ingranaggi. Chi oggi si volta indietro riesce a scorgere solo un sistema economico manovrato da cariatidi della politica e da lobbies che non hanno intenzione di comprendere che è giunta l'ora di farsi definitivamente da parte. Occorre depurare definitivamente quella società nella quale la loro presenza è solo di intralcio a coloro che, guardando avanti, riescono a scorgere ancora una flebile luce in fondo al tunnel. Peccato che, attualmente, mano a mano che l'uscita si avvicina, anziché ampliare la prospettiva di una visione migliore, rischia di oscurarsi sempre di più. Viene allora da chiedersi che senso abbia investire energie in un Paese che non ha la volontà di allargare l’orizzonte perché ciò che conta è il campanile di appartenenza o, peggio ancora, l’orticello di casa propria. Oltre l’Italia c’è un’immensa prateria di giovani che hanno fame di apprendere, di crescere, di migliorare e di osservare, sotto una differente angolazione, i benefici che derivano dalle diversità culturali, uscendo dalla quotidianità di un andazzo opportunistico. Oggi, se un giovane pensa ad un futuro in Italia ha difficoltà a riconoscersi in quel Bel Paese ricco di prospettive. Può solo tradurre correttamente in realtà l’incipit di una poesia di Pablo NERUDA: «Lentamente muore chi diventa schiavo dell’abitudine, ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi, chi non cambia la marca, chi non rischia e cambia colore dei vestiti, chi non parla a chi non conosce». Se questà è l’Italia che si sta costruendo per affrontare il futuro, allora siamo proprio nella giusta direzione indicata dal poeta sudamericano.
Autore: Emanuele COSTA
Pubblicato su: Il Nuovo Picchio9/Settembre 2012 con il titolo «Goodbye Italy, quando si deve lasciare il proprio paese»

6 September 2012

Generazione senza speranza


Recentemente l'ISTAT ha pubblicato il Dossier "Noi Italia". Un documento che, attraverso un abile intreccio tra una sequenza di lettere per formare le parole ed un formicaio di numeri tradotti in percentuale, dà un senso compiuto alla situazione economico/sociale del Paese. Nella Sezione "Mercato del lavoro", un dato emerge con prepotenza: la situazione allarmante e, allo stesso tempo, preoccupante del malessere che circonda le legittime aspirazioni di quel mondo di giovani che si collocano in un range di età compreso tra i 15 ed i 24 anni, ossia quello che si configura come la "generazione del futuro". Nel 2009 il tasso di disoccupazione giovanile si è attestato al 25,4% (in crescita dal 21,3% registrato nel 2008) a fronte di una media europea del 19,8%. In altre parole, circa un quarto dei ragazzi non riesce a realizzare le proprie aspettative di entrare a pieno titolo nel mondo del lavoro. Per sottilineare la drammaticità del dato, quella che è stata definita come la "generazione del futuro" rischia di convertirsi in una "generazione senza speranza". Alla luce di queste informazioni statistiche, un interrogativo tarda ancora a trovare una risposta: "A cosa serve studiare se poi la realtà non offre alcuna prospettiva?". Nel giugno del 1851 Friedrich ENGELS scriveva a Joseph Arnold von WEYDEMEYER«Se uno non studia sistematicamente, non arriverà mai a nessun risultato». Anche se il contesto cui si riferiva l'enunciazione del principio era tutt'altro, il suo significato rende, con maggiore incisività, l'idea intorno alla quale si confrontano le giovani generazioni di oggi e di domani. In una società priva di valori è facile perdere la bussola della ragione, intesa come comportamento razionale improntato alla costruzione del proprio futuro. Oggi appare ancora più evidente il senso di smarrimento che un giovane incontra di fronte ad un dilemma esistenziale, che si rispecchia nella forma interrogativa del postulato elaborato da Friedrich ENGELS oltre un secolo fa. Infatti, molti potrebbero, a ragione, contestarne l'assioma, prendendo tristemente atto che, in una società incapace di riconoscere i valori, è vero l'esatto contrario. Così sono molteplici coloro che, presi dallo sconforto, si domandano a cosa possa servire studiare sistematicamente se poi, alla luce dei fatti, non si riesce a raggiungere alcun traguardo, perché quelle abilità alle quali la società di oggi riconosce un valore, si identificano in altre qualità, che nulla hanno a che fare con il merito.
Autore: Emanuele COSTA
Pubblicato su: www.actadiurna.it il 18 febbraio 2011 con il titolo «Generazione senza speranza»

25 August 2012

Controllo di Gestione: perché?

In un sistema economico nel quale le variabili in gioco acquisiscono continuamente sempre maggiore dinamicità, la Pubblica Amministrazione deve convincersi ad abbandonare quel ruolo di spettatore neutrale, entrando da titolare in campo per adeguare i propri standard operativi alle nuove pretese della Comunità che rappresenta. Nell’epoca attuale non è più accettabile che il Settore Pubblico si comporti come un soggetto passivo, aspettando la manifestazione dei fenomeni per reagire in emergenza, ma deve collocarsi nello scenario nazionale/locale come principale motore e promotore del cambiamento. Operando lungo questa direttrice, sarà possibile guidare il risultato delle proprie azioni, seguendo un percorso ricercato. E’ necessario, quindi, un atto di coraggio per prendere le distanze da quelle logiche gestionali antiquate che accompagnano ancora oggi l’assunzione delle decisioni. In un regime caratterizzato da turbolenza ambientale, il rispetto di precisi adempimenti consolidati nel tempo non rappresenta più una formula di successo. Occorre rivedere gli ingredienti della ricetta, per offrire al Cittadino servizi sempre più vicini alle reali necessità. Infatti, è riduttivo continuare a classificare il Contribuente come semplice “utente”, quando è più aderente alla realtà qualificarlo come “cliente”, avendo maggiore consapevolezza dei bisogni da soddisfare e, soprattutto, la capacità di operare delle scelte fra alternative. Se in passato l’omaggio alla norma implicava automaticamente il raggiungimento dei target, oggi l’attenzione deve convergere sul risultato atteso, ponendo i giusti interrogativi sulle modalità di raggiungimento e miglioramento. In altre parole, l’usanza di risolvere i problemi affidando alla prassi la soluzione deve lasciare spazio all’idea, che è in grado di disegnare, per ogni necessità, la decisione più appropriata. Per queste motivazioni, alcune Amministrazioni Pubbliche hanno percepito l’importanza del Controllo di Gestione come insieme di attività che supportano le decisioni, in grado di interpretare razionalmente gli output del sistema informativo esistente. In alternativa, si potrebbe lasciare tutto così com’è ed affrontare i problemi utilizzando le collaudate procedure, con la consapevolezza che «quando l’acqua arriverà alla gola, sarà inutile chiedersi se è potabile».
Autore: Emanuele COSTA
Pubblicato su: Semplice9/Settembre 2011 con il titolo «Controllo di Gestione: perché?»

19 August 2012

Quale turismo sostenibile?

Come puntualmente accade ogni anno, al termine di ogni stagione turistica si tirano le somme, chiudendo il bilancio, su ciò che il Levante ligure è stato capace di offrire al gitante e interrogandosi sulla bontà dei risultati ottenuti. Se la partita tra ottimisti e pessimisti non vedrà mai un vincitore, al ping pong delle dichiarazioni segue, con precisione, la conversione delle parole in numeri, per verificarne la corrispondenza biunivoca. Se da un lato, c'è chi sostiene che il turismo sia collassato rispetto agli ultimi venti anni, dall'altro c'è chi manifesta soddisfazione per aver registrato una crescita di presenze a due cifre percentuali. Pertanto, di fronte al solito "balletto" dei numeri, non è mai facile comprendere chi, alla resa dei conti, abbia ragione. Probabilmente, l'oggetto del contendere farà presto accertare che, nel complesso, si tratti di operazioni a somma zero. Ad uno sviluppo turistico in una località, fa eco la depressione registrata in un'altra, con l'amara consapevolezza che, in termini comprensoriali, nessuno può ritenersi soddisfatto. Eppure, non è difficile uscire dall'ambito del proprio campanile per osservare, valutare e considerare il comportamento degli operatori nelle Regioni a forte vocazione turistica. Se nella Riviera romagnola lo slogan che ha sintetizzato la scorsa stagione è stato "Comunicare per accogliere", in quella ligure si è assistito ad uno scontro generazionale tra chi desiderava un turismo all'insegna del divertimento, trasmesso dal linguaggio dei più giovani, a chi, invece, pretendeva un turismo improntato al riposo ed alla tranquillità, profuso dal vocabolario dei più anziani. Se nella Riviera adriatica, per mantenere elevati interesse e attenzione sul turismo anche in periodi di bassa stagione, si organizzano Conferenze su quello sostenibile, per ponderare al meglio le strategie da adottare su ciò che sarà il "turismo del futuro", in quella nostrana, al contrario, si entra in letargo, nella speranza che, prima o poi, le cose migliorino da sole. Le ragioni di una condotta differente rispetto ad altri trovano terreno fertile nella nostra Regione, perché il claim che promuove il turismo adriatico non si combina con quello in auge in Liguria: da noi non si può comunicare, altrimenti i decibel del tono di voce potrebbero disturbare il riposo e la tranquillità e nemmeno accogliere, perché il sorriso è elargito con parsimonia. E poi perché preoccuparsi del "turismo del futuro" se ogni volta che si ha la possibilità di organizzare qualcosa di innovativo, ci si volta indietro ad ascoltare le voci che vengono dal passato?
AutoreEmanuele COSTA
Pubblicato suIl Nuovo Levante del 06 febbraio 2009 con il titolo «Turismo: il balletto delle cifre».

10 August 2012

Dalla rapallizzazione alla Città "groviera"

Quando negli anni Settanta del secolo scorso un Comune della Liguria era salito agli onori della cronaca, lo aveva fatto in seguito ad un processo di ricostruzione selvaggio e indiscriminato tale da indurre gli esperti a coniare il neologismo “rapallizzazione”, termine che trova stabile collocazione all’interno dei dizionari della lingua italiana. Oggi, invece, il fenomeno che interessa più da vicino un Ente Locale è quello meno conosciuto, ma più appetibile, che tende ad associare l’estensione del suo territorio ad un “groviera” (o “gruviera”) su scala più ampia. Poco importa se la dizione corretta è quella con la lettera “O” o l’altra con la “U”, perché il riferimento non è ad un prodotto alimentare Igp (Indicazione geografica protetta), ma ad una realtà meno saporita, collocata sotto gli occhi di tutti, o meglio, le ruote e i piedi di ognuno. Quindi, è inutile litigare sulla terminologia più opportuna da utilizzare per descrivere la vicenda, perché in entrambi i casi le lettere rappresentano, con una prospettiva diversa, la larghezza o la profondità della buca. Non occorre utilizzare gli strumenti a disposizione degli esperti per rendersi conto che le Città sono sempre più foderate di buche sia nei percorsi carrabili, sia in quelli pedonali, perché è sufficiente osservare guidatori e passanti quando si cimentano in slalom acrobatici di alta tecnica per scongiurare il rischio di trovarsi catapultati per terra al primo movimento falso. Ogni settimana un Comune denuncia mediamente uno/due sinistri per capitomboli (prevalentemente di pedoni), con un impatto negativo per l’Amministrazione in termini sia di immagine trasmessa/percepita, sia economico/finanziari. In primo luogo, ogni sinistro che l’Ente Locale segnala alla competente Compagnia di Assicurazione si ripercuote sullo stato di salute del malcapitato, manifestando con evidenza il livello di attenzione che un Amministratore pubblico riserva al benessere dei Cittadini e, più in generale, a tutti coloro che, quotidianamente, percorrono le vie urbane. Eppure, uno dei pilastri che accompagna costantemente il programma elettorale del Primo Cittadino è l’armonico connubio che deve esistere tra lo sviluppo di una politica turistica, che sappia accogliere il gitante in uno scenario non solo morfologicamente affascinante, ma anche in grado di offrirgli servizi pubblici per soddisfare le diverse esigenze, e il mantenimento di un elevato tasso di residenzialità, capace di trattenere i Cittadini sul territorio comunale per il buon livello della qualità della vita. In secondo luogo, ogni sinistro processato dall’Ente implica un peggioramento del tasso di premio applicato dalla Compagnia di Assicurazione sul valore assicurato, in quanto un rischio più elevato di sinistrosità dei percorsi urbani (carrabili e pedonali) comporta un potenziale maggior esborso sotto forma di risarcimento danni. E’ troppo facile, quindi, nascondersi dietro il paravento della polizza assicurativa per disinteressarsi allo stato di manutenzione delle strade/marciapiedi, destinando al loro rifacimento le briciole rimaste dopo la spartizione delle risorse tra “altre priorità” ritenute più prestigiose per l’immagine della Città, se non, forse, per la visibilità degli Amministratori. Non serve intervenire con lavori di manutenzione saltuari per tamponare le “ferite” che si aprono sull’asfalto o nelle isole pedonali, dimostrando così sensibilità e interessamento alle problematiche del territorio che si governa. E’ necessario tenere conto della ramificazione del paese, che comprende, oltre alle vie principali, anche quelle meno frequentate delle frazioni, intervenendo con una politica di investimento locale strutturale, in modo da stimolare l’economia del territorio e creando, a cascata, le premesse per tutta una serie di iniziative che impattano sul rilancio della Città, rendendola affascinante sotto angolazioni differenti. «L’attrattività delle città per il turismo e per gli investi­menti si decide in gran parte sulla qualità dei trasporti pubblici, dei marciapiedi, dei parchi e degli spazi pe­donali. E’ in questi luoghi che si crea l’identità della città, si corre o si passeggia, si guarda la gente in faccia, ci si incontra e ci si siede al bar, si ammirano le vetrine, si vivono le atmosfere, le mille luci della città» (Tratto da: «Costruire Città senz’auto» - Dossier 2009 di Legambiente). La programmazione degli interventi deve essere calibrata con più incisività, per evitare che, nell’attesa che trascorra il tempo biblico necessario per assumere le decisioni, si perda di vista la missione dell’amministrare la res publica. In alternativa, la Città perderebbe lentamente la sua identità. Allora non sarà più possibile correre o passeggiare per il timore di rovinare per terra, la gente non potrà più guardarsi in faccia, ma dovrà rivolgere lo sguardo in basso per vedere dove mette i piedi e si potrà sperare di incontrarsi, sedersi al bar, ammirare le vetrine e vivere le atmosfere, se non si cade prima dell’appuntamento. E se l’Amministratore pubblico illuminerà la Città con il suo linguaggio politichese per giustificare la lentezza della macchina comunale, deve sperare che, nel frattempo, una di queste luci, quella più importante, non si sia spenta sull’asfalto.
Autore: Emanuele COSTA
Pubblicato su: Semplice6/Giugno 2009 con il titolo «Dalla rapallizzazione alla città "groviera"»

2 August 2012

Politica monetaria espansiva: giù la maschera!

Come volevasi dimostrare, non è iniettando liquidità sul mercato che automaticamente si genera la crescita economica, anche perché quella massa monetaria, generosamente elargita al sistema creditizio, è servita solo ed esclusivamente a mettere in sicurezza le banche sotto il profilo della solvibilità. Infatti, di quella immensa torta di moneta, al sistema produttivo non è arrivata una briciola. Se, al contrario, fosse giunto qualcosa, allora sarebbe sufficiente guardarsi intorno per appurare che non ha indotto alcun beneficio. Quindi, c’è da chiedersi: siamo sicuri che la BCE (Banca Centrale Europea) è intervenuta sul mercato inondando di liquidità il sistema economico? Oppure, si è trattato di un fuoco di paglia, ossia di una operazione mascherata da altre finalità? Sono solo esempi, ma servono per far riflettere, il sostegno alle quotazioni dei titoli del debito pubblico è stato immediatamente sterilizzato per evitare degenerazioni inflazionistiche. Non solo! Ci sono altri effetti sottesi a quella operazione che anziché provocare benefici, nel lungo periodo rischiano di aggravare ulteriormente la situazione in cui versa il sistema economico. In primo luogo, gli interessi sul debito sovrano non sono più riversati sul mercato (per il tramite dei soggetti che li detenevano: banche, imprese, cittadini), ma incamerati nei forzieri dell’Istituto Centrale Europeo che ora li ha in portafoglio, con conseguente assorbimento di risorse dal mercato. In alternativa, per cercare di tamponare questo inconveniente, la BCE potrebbe decidere di ricollocare sul mercato (attraverso la loro vendita) i bond acquistati durante il periodo in cui erano forti le tensioni indotte dalla speculazione finanziaria internazionale. In questa circostanza, lo scenario apparirebbe ancora più grave del precedente, poiché, oltre ad incassare gli interessi nel frattempo maturati, realizzerebbe cospicue plusvalenze, grazie a quotazioni ben più favorevoli rispetto a quelle esistenti all’epoca degli acquisti. Il risultato finale sarebbe quello di drenare un’ingente massa monetaria, aggravando la respirazione di un mercato ormai asfittico. Infine, come ultima opzione (o, meglio, ultima spiaggia) l’Istituto guidato da Mario DRAGHI potrebbe allungare i tempi dell’agonia per effetto della politica monetaria messa in campo, lasciando giungere a naturale scadenza il portafoglio costituito dai titoli del debito sovrano. In quel contesto, lo stock del debito pubblico sarebbe rimborsato dagli Stati sovrani alla pari, con conseguente realizzazione di un ingente surplus derivante dalla differenza fra i corsi dei titoli al momento del loro acquisto (notevolmente al di sotto del loro valore nominale) e quello di rimborso (pari, appunto, al loro valore facciale). A conti fatti, sembrerebbe che la politica monetaria messa in campo dalla BCE sia stata restrittiva, mascherata da espansiva, con il rischio di portare il mercato verso un’ulteriore contrazione della domanda aggregata accompagnata, questa volta a ragion veduta, da un regime inflazionistico più elevato.
Autore: Emanuele COSTA
Pubblicato su: Il Nuovo Picchio7/8 Luglio/Agosto 2012 con il titolo «Politica monetaria espansiva: giù la maschera!»

28 July 2012

Cultura: ossigeno cerebrale

Spesso ci si interroga sul perché la Pubblica Amministrazione non sia in grado di fronteggiare i bisogni della collettività, fornendo ai Cittadini quei servizi necessari alle esigenze da soddisfare. Una domanda alla quale non è particolarmente difficile trovare una risposta sensata perché è sufficiente sottoporre la questione al cosiddetto “elephant test” di estrazione anglosassone. Qualunque sia scenario di riferimento, la conclusione non muta il suo significato. Ha scarsa importanza la dimensione territoriale dell’Ente Pubblico governato (locale/nazionale) in quanto l’abilità nel saper fare una cosa non dipende né dall’età dell’esecutore, né dalla sua esperienza, ma dalla cultura con la quale approccia il problema. Si assiste con crescente frequenza a lasciare il governo della Città (o del Paese) in mano a soggetti close-minded, caratterizzati da una visione strategica miope, incapaci di adottare decisioni appropriate al bene comune ed inadeguati a reggere il passo dell’evoluzione culturale e tecnologica. Occorre, nella maggior parte dei casi, che le istanze o le critiche dei Cittadini non incontrino la giusta attenzione dell’Amministrazione di riferimento perché si collocano controcorrente rispetto ad una filosofia di gestione improntata alla carlona ed ispirata all’arte del michelaccio. Di fronte ad una difficoltà è meglio rivolgere lo sguardo altrove oppure limitarsi a fare spallucce, lasciando che il barile sia scaricato da monte a valle, lasciandolo poi miseramente rotolare nella pianura della foresta burocratica. In altre parole, i problemi non sono risolti, ma molto più convenientemente eliminati. Sicuramente questo modus operandi funziona fino a quando non si verifica qualche evento straordinario che lo riporta a galla, rendendo così di dominio pubblico l’incapacità della Pubblica Amministrazione di affrontare di petto la questione, costringendola ad assumersi quelle responsabilità che le competono e per le quali i Cittadini pagano le tasse. Capita, quindi, che se il cosiddetto “uomo della strada” osa alzare lo sguardo per contestare il comportamento del politico di turno, immediatamente le forze si uniscono, dirigendosi in massa verso l’obiettivo da annientare e distruggere, ossia il libero pensiero e la critica politica. Si attiva la peggiore macchina amministrativa con la finalità di dare una lezione a coloro che si sono permessi di mettere in discussione l’agire del pubblico amministratore che si continua a credere sia immune agli errori. Anziché concentrare gli sforzi sul perché suggerimenti e opinioni divergenti sono formulati dai Cittadini, le energie sono dirottate sulla peggiore censura che la storia ricordi. Siamo lontani anni luce da quella galassia formata da un vertice politico illuminato per doverci tristemente accontentare di quello che naviga a vista, procurando danni non solo irreparabili, ma spesso irreversibili. Quindi, per quale misteriosa ragione non ci si preoccupa di commettere errori durante l’espletamento del proprio mandato elettorale? La risposta è semplice. A farne le spese sono solo ed esclusivamente i Cittadini e, fatto ancor più grave, i danni sono pagati non da chi li ha procurati, ma da coloro che li hanno subiti.
Autore: Emanuele COSTA
Pubblicato suhttp://www.tigulliana.org del 28 luglio 2012 con il titolo «Cultura: ossigeno cerebrale»

24 July 2012

Perché non lasciare che sia il mercato ad assegnare il rating al debito sovrano?


La tripla “A” assegnata ad uno stock di debito sovrano consente, allo Stato emittente, di prendere a prestito denaro a basso costo. È necessario, tuttavia, sfatare un tabù, per cercare di comprenderne al meglio il significato. Quel giudizio dovrebbe rispecchiare il grado di affidabilità e stabilità dei governi che emettono certificati rappresentativi del debito pubblico. Tuttavia, quel coefficiente di valutazione è frutto sempre e comunque di un’opinione tecnica, ma soggettiva, ed è un’indicazione relativa e non assoluta. Infatti, se le Agenzie di rating, che sono i soggetti deputati ad assegnare, secondo una propria scala di valori, un giudizio ai titoli del debito sovrano, procedessero con un downgrade di tutti i paesi, la situazione che si andrebbe a configurare non cambierebbe la sostanza dei fatti. In altre parole, quei paesi che ora occupano il vertice della classifica con la tripla “A”, continuerebbero a trovarsi in posizione di primato rispetto agli altri, pur avendo un rating più basso. La conseguenza rimarrebbe immutata, perché quei governi continuerebbero ad ottenere finanziamenti ad un costo più a buon mercato rispetto agli altri. Ciò si verifica perché il giudizio sul livello di solvibilità di un governo non è lasciato in balia degli umori del mercato, che, attraverso il meccanismo dell’incontro tra la domanda e l’offerta determina sia la quotazione di un titolo, sia il tasso di interesse implicito, ma ad un giudizio che, anche se derivante da analisi, studi e ricerche sui fondamentali di ogni Paese, resta pur sempre soggettivo ed affidato al sentimento del valutatore. Per ovviare a potenziali distorsioni interpretative e dipanare tutte le polemiche, oltre alle varie inchieste aperte da organismi di vigilanza (Consob) o giudiziari che ruotano intorno alla veridicità dei giudizi espressi dalle Agenzie di rating, può essere opportuno studiare un nuovo metodo, più automatico e meno soggettivo, di valutazione. La proposta è quella di affiancare il coefficiente di affidabilità ad una scala di valori dinamica, con range pari ad un quarto di punto percentuale, variabile quotidianamente (e non periodicamente). Al vertice si andrebbero a collocare sempre i paesi che offrono, per i propri titoli, il rendimento meno elevato (qualunque esso sia). In questo modo, ad essi verrebbe assegnato il coefficiente massimo di valutazione (equivalente all’attuale tripla “A”) e a cascata seguirebbero tutti gli altri. Il rendimento cui si sta facendo riferimento non è quello esplicito che costituisce la base per il calcolo delle cedole, ma quello implicito che scaturisce dalla quotazione del titolo sul mercato. Operando in questa direzione, il giudizio sull’affidabilità di un governo sarebbe demandato al mercato, che, fino a prova contraria, è sempre meno soggettivo di quello formulato dalle tre sorelle (Fitch, Moody’s e Standard & Poor’s), in quanto derivante da numerose operazioni di scambio tra miriadi di operatori che investono direttamente nei titoli del debito sovrano. Il giudizio sull’affidabilità di un titolo andrebbe incontro ad oscillazioni quotidiane e verificato all’istante perché l’informazione sarebbe fruibile in tempo reale da tutti gli operatori sul mercato e non demandato a comunicati stampa emessi a sorpresa. In questo modo, si potrebbero avere due certezze: la prima, una maggiore stabilità nelle quotazioni, perché il coefficiente di affidabilità sarebbe automaticamente determinato da milioni di soggetti che investono direttamente in quei titoli, manifestando la personale fiducia nel governo che li emette; la seconda è che si eviterebbe di formulare valutazioni estrapolandole da analisi soggettive, che diventerebbero così inutili e inoffensive, essendo potenzialmente influenzabili da centri di potere. La critica che potrebbe essere mossa ad una simile proposta è che il mercato si muove in maniera irrazionale, perché il suo comportamento è il risultato di ciò che percepiscono gli investitori che in esso operano. Le valutazioni soggettive, invece, sono più razionali, perché frutto di analisi complesse ed elaborate, che prendono in considerazione più fattori. Nel mercato, però, si assiste in continuazione all’incontro tra la domanda e l’offerta, che porta sempre all’individuazione di un prezzo di equilibrio, che è accettato dalle parti in causa come il migliore in quel momento. Quindi, in un contesto di forte instabilità quale dei due comportamenti appare il più credibile? Quello che risulta dagli scambi che avvengono sul mercato e che riflettono la fiducia degli investitori o quello adottato dalle Agenzie di rating che fondano le proprie analisi su dati storici e prospettici? La partita rimane aperta, perché l’unica certezza in questo momento è quella che tra irrazionalità e razionalità non c’è alcuna differenza!
Autore: Emanuele COSTA
Pubblicato su: Il Futurista dell'08 agosto 2011 con il titolo «Perché non lasciare che sia il mercato ad assegnare il rating al debito?»

13 July 2012

Pubblica Amministrazione tra principi e responsabilità

 
Sono ormai passati diversi mesi da quando il Parlamento ha licenziato il Decreto Legislativo n° 150/2009 «Attuazione della legge 4 marzo 2009, n° 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni», ma il tema trattato non cessa di essere oggetto di critiche, dibattiti e opinioni, a dimostrazione che il susseguirsi delle stagioni non ha comportato modifiche negli stili di vita, perpetuando una moda intramontabile. Eppure, al di là del contenuto delle discussioni, siano esse favorevoli o contrarie, la lettura del dettato normativo non fa trasparire quelle novità che hanno fatto aumentare la temperatura della preoccupazione tra gli addetti ai lavori per un cambiamento che, in realtà, non c’è ancora stato, non sembra previsto e, probabilmente, non si verificherà. La riforma della Pubblica Amministrazione è un processo in itinere, iniziato ormai vent’anni fa, anche se, per cause dipendenti dalla volontà di tutti e di nessuno, i risultati che risiedevano nell’intenzione del Legislatore continuano a non manifestarsi. Infatti, come avviene in qualsiasi processo continuo che si ispira al cambiamento, dovrebbe avere la finalità, se perseguita nel rispetto della metodologia "kaizen", di individuare ed apportare sensibili miglioramenti all'intera Struttura Organizzativa. Nella realtà, invece, si assiste ad uno strano fenomeno, inquietante quanto misterioso, che consiste nel valutare attentamente le trasformazioni positive prospettate dalle nuove regole, per iniettare un virus letale capace di inibirle, anziché cavalcare l'onda del progresso che va nella direzione di assicurare livelli qualitativi superiori nei servizi erogati dalla Pubblica Amministrazione. La filosofia storica che ha ispirato il processo di rinnovamento ha investito, soprattutto, il comportamento organizzativo, sancendo con l’articolo 3 del Decreto Legislativo n° 29/1993 «Razionalizzazione dell'organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego» (oggi articolo 4 del Decreto Legislativo n° 165/2001 «Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche») quel principio di separazione dei poteri, che da tempo memorabile aveva collocato la volontà politica al vertice di tutto il processo decisionale. La piramide dell'Organizzazione iniziava così lentamente a schiacciarsi verso il basso, senza, tuttavia, implodere, perché gli interessi in gioco erano ancora molti e non era ammissibile tranciare di netto quel cordone ombelicale che tiene ancora imbrigliata la classe dirigente agli umori della politica. Il primo passo del legislatore fu quello di separare il processo di formazione delle decisioni in due grandi aree:
a) da un lato, l’azione di governo da proporre nel periodo di mandato (potere di indirizzo);
b) dall’altro, l’azione di amministrazione da sviluppare nel corso dell’anno (potere di gestione).
L’impronta riformatrice non era stata disegnata esclusivamente con l’idea di evitare (o almeno limitare) ingerenze di una parte nell’attività tipica dell’altra, ma si proponeva l’ambizioso obiettivo di far percepire a tutti gli attori quel senso di appartenenza ad un’Organizzazione, attraverso coinvolgimento, consapevolezza e responsabilità nell’adozione delle decisioni: politiche (nel primo caso), tecniche (nel secondo). Tutto ciò ha prodotto una forte spinta innovativa per individuare moderni modelli organizzativi e adeguati processi operativi. I primi, toccano da vicino la responsabilità politica, che deve preoccuparsi di costruire un’architettura organizzativa dotata di strumenti flessibili per generare consenso nella comunità di riferimento, in coerenza con il processo di pianificazione degli interventi da realizzare, per conseguire gli obiettivi sbandierati nel programma elettorale. Se correttamente intesa, rappresenta il punto dal quale partire per attuare quella trasformazione radicale nella gestione affidata alla politica che si traduce nel passaggio dalle tecniche di government, indirizzate alla produzione e implementazione di politiche pubbliche, a quelle di governance, orientate a valutare gli effetti dei comportamenti posti in essere sui soggetti investiti dalle policy. I secondi, investono in pieno la responsabilità manageriale, che deve sforzarsi di individuare meccanismi idonei a stimolare un’accelerazione nel passo burocratico per consentire il raggiungimento dei target fissati dalla classe politica. Resta ferma l'ipotesi che il modus operandi deve avere sempre in primo piano la cognizione che da ogni processo decisionale scaturiscono responsabilità:
a)   politiche (connesse agli obiettivi da realizzare);
b)   manageriali (legate alla realizzazione degli obiettivi);
c)    patrimoniali (relative ai danni cagionati dall’azione);
d)   penali (derivanti dall’adozione di comportamenti illegali).
Occorre, pertanto, improntrare lo sviluppo dell’azione amministrativa all'osservanza di due principi fondamentali:
1)   buon andamento;
2)   imparzialità;
dai quali, se rispettati, discendono automaticamente quelli di:
a)   efficacia;
b)   efficienza;
c)    economicità;
d)   legalità;
e)    partecipazione;
f)     pubblicità;
g)   trasparenza.
Non è un caso se i due principi guida richiamati sono stati volutamente incastonati all'interno della Carta Costituzionale (all'articolo 97) per illuminare costantemente il decisore pubblico che qualunque linea di condotta della Pubblica Amministrazione deve essere estrapolata da essi. Per questo, è possibile individuare la loro giusta interpretazione all'interno della produzione normativa, laddove si tenta di far comprendere l'importanza del processo di programmazione delle attività, se esistente, dal quale dovrebbero scaturire decisioni che prevedono l'adozione di comportamenti razionali. Pertanto, l'imperativo del "buon andamento" si converte sul piano operativo nel prestare particolare attenzione:
a) alle scelte da adottare, che devono essere guidate dai principi enunciati dalle tre "E";
b) alle procedure da seguire, che impongono il coinvolgimento degli altri principi;
mentre la "imparzialità" chiama in causa quella posizione di neutralità che deve permeare il comportamento di tutti gli operatori, dovendo evitare disparità di trattamento nel prendere in considerazione l'intreccio degli interessi coinvolti. Questi ultimi trovano ulteriore garanzia nell'articolato della norma sul procedimento amministrativo (Legge n° 241/1990 «Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi») che prevede:
1) l'esistenza di un Responsabile del Procedimento (articolo 5);
2) la partecipazione e l'intervento al/nel procedimento (articolo 7 e articolo 9);
3) la pubblicità del fascicolo (articolo 10);
4) l'obbligo di motivazione (articolo 3);
5) la predeterminazione dei criteri per l'ottenimento di vantaggi economici (articolo 12).
Infine, la mancata conformità dell'azione amministrativa al dogma della trasparenza, che, in un certo senso, fa da cornice agli altri principi, impatta negativamente su quelli fondamentali, poiché stimola la diffusione di atteggiamenti promossi dalla volonta di tutelare interessi di parte. E' facile comprendere, quindi, come dal rispetto delle regole sancite dalla Costituzione possano discendere implicitamente tutta una molteplicità di condotte, la cui combinazione configura il pubblico agire, che nella responsabilizzazione trova l'asse portante di una Pubblica Amministrazione più credibile.
Autore: Emanuele COSTA
Pubblicato su: Semplice9/Settembre 2010 con il titolo «Pubblica Amministrazione tra principi e responsabilità»