24 October 2012

Verso una società fondata sull'ignoranza

Da un paio di mesi fioccano sui social forum gli inviti a partecipare a gruppi che inneggiano ad isolare la Cina e, quindi, a boicottarla non acquistando i prodotti provenienti dal quel paese asiatico. Ma davvero la Cina va considerata la madre della crisi economica? O, forse, dovremmo indagare a fondo sul perché le nostre imprese preferiscono localizzare la produzione in estremo oriente? In altre parole, la diatriba dovrebbe aggiustare la mira, spostandola dal consumo finale di prodotti al processo di produzione. Infatti, è sufficientemente chiaro che quando un'impresa decide strategicamente di delocalizzare la produzione all'estero, lo fa per il semplice motivo che i costi da sostenere sono sensibilmente inferiori. Operando in tal senso potrà riuscire a sopravvivere nella giungla concorrenziale, anziché fallire miseramente, soffocata dalla miriade di cavilli burocratici imposti all'imprenditoria. Il problema, in altri termini, dovrebbe focalizzarsi sui prezzi dei prodotti nazionali "made in China" venduti in Italia. Se la loro produzione avviene a costi decisamente ridotti, altrettanto "stracciati" dovrebbero essere i prezzi di vendita. E' difficile, in un contesto simile, comprendere le ragioni di chi si lamenta che le tasse imposte dal Governo sono troppo alte, ma non adotta lo stesso comportamento quando deve giudicare quelle imposte dal Settore privato (ossia i prezzi). Su questo aspetto c'è una differenza sulla quale occorre riflettere. Infatti, mentre le tasse servono anche per mantenere in vita uno stato sociale che tutela i più bisognosi, i prezzi servono solamente per assicurare un egoistico profitto agli imprenditori. Ciò non vuole assolutamente significare che una impresa privata non abbia il sacrosanto diritto di conseguire un guadagno dallo svolgimento della sua attività. Esiste, però, una sostanziale differenza tra "profitto" e "speculazione", specie se condotta a scapito di coloro che non possono intervenire nel processo decisionale o sono costretti solo ed esclusivamente a sopportarne le conseguenze. Alla luce di questa riflessione, la Cina non solo attira su di sé un ingente volume di investimenti stranieri. Inoltre, mentre il paese asiatico agisce, legittimamente, per tutelare i propri interessi, l'Italia sta passivamente ad aspettare l'arrivo di tempi migliori. Tuttavia, il benessere nazionale non è una manna proveniente dall'alto dei cieli, ma il risultato di sacrifici fatti di duro studio e lavoro. Se il nostro Paese non riesce a esportare i propri prodotti, come può pretendere di venderli sul mercato locale? Forse, scendendo nel profondo della questione, è possibile individuare una ragione. Analizzando la situazione del paese asiatico, è facile accorgersi come sia presente in tutto il mondo non solo dal punto di vista produttivo, ma anche sotto il profilo dell'acquisizione di abilità, conoscenza ed esperienza. I migliori siti universitari pullulano di studenti con gli occhi a mandorla affamati di sapere ed apprendere. In altri termini, sono consapevoli che il futuro apparterrà a coloro che credono nella diversità culturale e solo con la conoscenza si potrà garantire un benessere migliore. Guardando in casa nostra, è facile individuare come l'andazzo generale dei giovani sia improntato al menefreghismo più radicale, fatto di passeggiate ripetitive di pomeriggio nei vicoli oppure di soste permanenti davanti ad un pub, con il bicchiere in una mano e la sigaretta nell'altra, a gareggiare su chi esprime la banalità più assurda, piuttosto che trascorrere il tempo libero sui libri di scuola per assicurarsi un lavoro ed una prospettiva migliore. Se questa è la fotografia dell'Italia, viene da domandarsi: è veramente tutta colpa della Cina?
Autore: Emanuele COSTA
Pubblicato suIl Nuovo Picchio n° 10/Ottobre 2012 con il titolo «Verso la società dell'ignoranza»

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