29 June 2013

Poveri noi!

«Le distanze ci informano che siamo fragili» (LE VIBRAZIONI, “Vieni da me”, 2003). Mai prima d’ora il significato di simili parole è così appropriato allo scenario del nostro Paese. L’uso poi dell’articolo plurale rafforza ancor più la gravità del contesto nel quale viviamo ed in quello in cui ci troveremo presto a risiedere. Un Paese che, avendo il vizio di affidare a sterili norme le proprie sorti, incontra ancora notevoli difficoltà a ragionare in termini comprensoriali. Un popolo che, in qualunque direzione collochi la propria visione strategica, si limita sempre ad individuare un campanile dal quale allontanarsi, anziché tentare di far fronte comune per andare oltre le attuali difficoltà. D’altronde, se così non fosse, il titolo della canzone accennata all’inizio rappresenterebbe un’occasione troppo ghiotta per essere sfruttata. Meglio proseguire per la propria strada, in modo autonomo, sperando che dall’affermazione della propria identità emergano quei segni distintivi che un domani possano essere riconosciuti come un marchio di successo. In un ambiente dove l’unione dovrebbe fare la forza, è preferibile dotarsi di tanti eserciti di solitari dai quali, nel tempo, non potrà scaturire altro che una moltitudine di sconfitti, anziché un unico vincitore. Diventa così necessario possedere la consapevolezza che non è più sostenibile la pretesa di albergare in un’isola felice per il resto dei propri giorni. L’oceano che ci circonda è sempre più agitato ed è difficile prevedere la forma e la forza che manifesterà la tempesta che minacciosa si avvicina all’orizzonte. Occorre, pertanto, impegnarsi a gettare le basi di uno sviluppo che, al tempo stesso, abbia capacità e prospettive diverse da quelle che ormai appartengono alla storia. Infatti, se l’habitat naturale è così disastrato non è sicuramente per volontà di coloro che sono nella condizione di non poter disporre e decidere del proprio futuro, meno ancora delle generazioni che si trovano ancora allo stato embrionale. Non occorre andare lontano, è sufficiente guardarsi intorno, a 360 gradi, per rendersi conto che quella perla preziosa che da sempre ha rappresentato la stella polare del nostro paesaggio non ha più quelle potenzialità attrattive e ricettive per continuare a brillare di luce propria. Sono necessarie altre risorse in grado di generare energie alternative, portatrici di sostanze meno inquinanti. E’ per questa ragione che la forza motrice deve emanare da soggetti di elevata caratura morale e solidale, non da personaggi per i quali l’unico obiettivo da perseguire durante la temporanea esistenza terrena consiste solo ed esclusivamente nell’esaltazione del proprio ego. Tuttavia, anche il principio della solidarietà, anziché materializzarsi in un fattore critico di successo, continua a suscitare una preoccupante sensazione di turbamento ogni volta che lo si sente nominare. Ciò si verifica perché il concetto qui richiamato è spesso frainteso nella concezione di sottrarre qualcosa a chi lo possiede per darlo a chi si trova nella condizione opposta. Non esiste peggiore propaganda al significato di solidarietà che quello appena descritto! Non si tratta di colpire chi ha saputo per propri meriti costruirsi nel tempo un futuro migliore grazie a faticosi sacrifici, ma di sanzionare comportamenti di abuso e sopruso che hanno consentito l’accumulazione di ricchezze danneggiando coloro che ne avevano non tanto più diritto, ma merito. Ed il principio meritocratico, cui dovrebbe ispirarsi l’azione di qualsiasi forma di governo, non è quello che si riconosce in una posizione di forza o supremazia capace di schiacciare le legittime aspirazioni di altri. Spesso e volentieri questa qualità nasce e giace nelle componenti più deboli della società civile. Operando in questa direzione sarà così possibile creare le premesse per assicurare quel progresso sociale fatto anche, nei momenti più difficili, di politiche di austerità e rigore, purché esse siano costruite nella condivisione ed illuminate negli intenti. Come disse Aldo MORO, «non è il rigore che è intollerabile, ma l’ingiustizia. Nella serietà di una grande e difficile prospettiva politica, la democrazia non appare un ostacolo, ma una potente forza operosa nel senso di evoluzione sociale e dell’eguaglianza. E questo è l’essenziale». Non servono, quindi, tanti sforzi per individuare una via di uscita dalle attuali difficoltà. Il politico di turno deve possedere quella abilità e sensibilità di mettersi al servizio della collettività. E se l’attività svolta è improntata univocamente a rendere un servizio al popolo, allora deve saperne trarre le opportune conseguenze quando non è più in grado di offrire quel servizio pubblico che era stato chiamato a produrre, sopportandone in prima persona gli oneri del fallimento e non, come la cattiva abitudine ha insegnato, ribaltandoli su coloro che, al contrario, avrebbero dovuto percepire i prospettati benefici. Sono ormai finiti i tempi che si rispecchiano nello slogan «comunque vada sarà un successo» poiché se gli effetti della crisi economica devono essere sopportati da tutti, i primi a farne le spese dovrebbero essere coloro che hanno contribuito a provocarla o non sono stati capaci di attenuarne gli effetti dirompenti. Non è più ammissibile un sistema nel quale è l’incapacità ad essere premiata, mentre la meritocrazia affanna quotidianamente per trovare fonti di sopravvivenza. Come si può, quindi, pretendere che siano sempre gli altri ad adempiere al proprio dovere? E, nel contempo, come si possono avanzare pretese quando ci si trova in un posizione debitoria? Occorre sforzarsi per ricostruire un contesto sociale più equo nel quale la produzione o l’accaparramento della ricchezza non si traduca in un dovere o diritto di pochi intimi. In caso contrario, non ci si deve meravigliare se un domani ci troveremo di fronte a quel destino già sperimentato in materia di politica estera da Alcide DE GASPERI, ossia quello di girare «per il mondo povero e ramingo e spesso col cappello in mano, nei momenti più tristi in cui ci si doveva presentare innanzi ai vincitori». Esiste, però, una sostanziale differenza tra la situazione di ieri e quella di oggi nelle parole del compianto statista. All’epoca i vincitori erano coloro nei confronti dei quali il Paese si era incamminato verso una guerra e l’aveva persa. Oggi il Paese rischia di perdere un altro conflitto non verso terzi, ma nei confronti di sé stesso grazie a politiche inadeguate perché mirate a salvaguardare i privilegi (non i diritti) di chi senza merito si è arricchito a danno di altri. La ricchezza che nasce da fattori diversi dal vantaggio competitivo dovrebbe trovare una redistribuzione che tenga conto delle esternalità prodotte. In questo modo, sarà possibile riequilibrare il benessere sociale a vantaggio di tutti, altrimenti il pericolo è quello di generare ulteriori ingiustizie, spesso non visibili ad occhio nudo, ma percepibili non appena si entra in contatto con la realtà. Ed è sufficiente osservare ciò che accade in ogni ambito per rendersi conto che non esiste alcuna differenza da chi per anni si è riconosciuto in una parte politica piuttosto che nell’altra. Lo stesso DE GASPERI si era già accorto che «si parla molto di chi va a sinistra o a destra, ma il decisivo è andare avanti e andare avanti vuol dire che bisogna andare verso la giustizia sociale». Ma “andare avanti” non significa perpetuare lo status quo, perché significherebbe muoversi in senso orizzontale è creare le premesse per una duratura dilatazione della ineguaglianza. Il movimento, nel senso di cambiamento, deve orientarsi in altra direzione. A voler essere più precisi, «dobbiamo andare verso l’alto verso una libertà maggiore, non scendere in basso verso la schiavitù» (Luigi EINAUDI). Ed è proprio in questa discesa che si rischia di camminare, fino a quando si vorrà continuare a cantare «Facciamo finta che … tutto va ben, tutto va ben …» (Ombretta COLLI, “Facciamo finta che …!”, 1975).
AutoreEmanuele COSTA
Pubblicato suwww.tigulliana.org (nella Rubrica "Diritto di Parola") del 29 giugno 2013 con il titolo «Poveri noi!»

16 June 2013

Non sono necessari grandi cambiamenti, ma scelte coraggiose per motivare i dipendenti

Il giorno in cui mi sono laureato in Economia e Commercio mi ero promesso che mai avrei prestato attività lavorativa alle dipendenze di una Pubblica Amministrazione. La formazione acquisita in anni di studi economico/aziendali non riusciva a farmi comprendere i meccanismi gestionali di un Ente Pubblico, la sua arretratezza culturale verso regole di amministrazione efficaci, efficienti e altamente produttive di benefit per la collettività. In realtà, in quel periodo, già collaboravo con un Ente Locale presso il Servizio «Risorse Umane» e, dopo un breve periodo di adattamento, avevo percepito come i dipendenti di quell’ufficio, ma più in generale di tutta la struttura pubblica, svolgessero la loro attività in modo routinario, senza avere il minimo interesse verso eventuali miglioramenti o snellimenti da apportare ai processi di lavoro. L’elemento che catturò particolarmente la mia attenzione era l’assenza di strumenti informatici adeguati alle tecnologie dell’epoca. Questa situazione portava ad impiegare la risorsa temporale a disposizione in modo pieno ed aveva la capacità di obbligare il personale ad effettuare prestazioni di lavoro straordinario per fronteggiare carichi di lavoro ai limiti dell’assurdo. Sembrava di essere tornato indietro nel tempo, agli studi superiori, dove si insegnava dattilografia utilizzando obsolete macchine da scrivere. Era difficile pensare ad un ufficio pubblico dove gli applicativi Word ed Excel erano solo parole sentite circolare tra gli adolescenti, che da un paio di anni utilizzavano i computer come materia prima per il loro embrionale approccio al nuovo mondo della videoscrittura e dei fogli di calcolo. Ho avuto l’opportunità, ma direi anche la fortuna, di poter lavorare con colleghi splendidi sotto ogni punto di vista, soprattutto quello umano. Molto mi hanno insegnato e credo anche di aver donato loro qualcosa in termini di propensione alla continua ricerca del miglioramento dei processi. L’introduzione del computer in sostituzione delle ormai superate macchine per la videoscrittura, ha rappresentato la chiave di volta per modificare radicalmente le modalità di svolgimento dell’attività lavorativa. L’ufficio è stato travolto da una corrente di ristrutturazione alla quale si sono nel tempo accompagnati risultati tangibili e apprezzabili. E’ migliorata la qualità sia delle prestazioni, sia dell’ambiente di lavoro, seppure, all’inizio, circoscritta alle quattro pareti dell’ufficio. Sono riuscito a far comprendere l’importanza dell’archivio cosiddetto “americano”, in altre parole il cestino della carta straccia, come metodologia per sistemare tutta quella produzione documentale inutile, ammucchiata grazie allo svolgimento di processi di lavoro con strumenti antiquati, capaci solamente di generare attività ripetitive ogniqualvolta un dito della mano aveva la sfortuna di capitare su un tasto sbagliato della macchina da scrivere. Il miglioramento dei tempi dedicati alle varie procedure ha contribuito a smantellare progressivamente il lavoro arretrato accumulato negli anni. La direzione dell’ufficio è passata da una logica di gestione per “priorità rincorse” a quella per “priorità trascorse”, ricercando costantemente, durante le fasi istruttorie, ulteriori miglioramenti da apportare ai procedimenti in corso. L’attenzione si è focalizzata non solo sui processi innovativi, ma anche e soprattutto su quelli già sperimentati e collaudati. In particolare, era necessario concentrarsi sugli aspetti variabili, eliminando ridondanze e creando le premesse per una gestione efficace ed efficiente della risorsa temporale disponibile. L’obiettivo dell’innovare i processi era quello di far comprendere e condividere come la riduzione della quantità del lavoro di ufficio non significasse “lavorare o produrre di meno”, ma migliorare la qualità, l’efficacia, il controllo sistematico dei procedimenti, generando risorse temporali da dedicare ad altre attività. E’ stata progressivamente superata la logica di quel pensiero burocratico, che ancora oggi purtroppo circola tra le mura delle Amministrazioni Pubbliche, fondata sul principio del “si è sempre fatto così e bisogna continuare a fare così”, per orientarla verso soluzioni maggiormente aderenti alle effettive esigenze. Nel 1922 Henry FORD disse: «Ho visto grandi business diventare nient’altro che il fantasma di un nome perché alcuni hanno creduto di poter continuare a gestire gli affari come avevano sempre fatto; e anche se la gestione era stata la migliore in assoluto a quei tempi, la supremazia consisteva nella capacità di essere al passo con i tempi, non in una pedissequa imitazione dei tempi passati». Nonostante siano trascorsi oltre ottant’anni, ciò che disse FORD è ancora di amara, se non triste, attualità, non perché consiste in una ricetta ancora valida per risolvere i problemi all’interno dell’Ente, ma perché si trovano ancora soggetti, che avendo il potere decisionale, lo usano con miopia strategica, senza che si riesca a comprendere l’utilità di un simile comportamento. E’ naturale che pur pubblicizzando la ricerca di formule innovative, in realtà nessuno le vuole finché qualcun altro le abbia già sperimentate con successo. Una scarsa propensione al cambiamento non farà mai percorrere all’Ente, inteso come insieme di persone, quel percorso culturale che lo renderà un domani percettore dei bisogni latenti, prima del loro manifestarsi. Graham WILSON rilevò in un suo scritto come «Il problema dei dirigenti superiori è in parte l’assenza di qualunque idea alternativa. Spesso essi sono formati con la convinzione che esiste un solo metodo per organizzare l’azienda e, siccome, le loro idee si uniformano a questo modello, deve essere tutto giusto» (Graham WILSON, «Making change happen», Pitman Publishing, 1993). La scarsa attenzione allocata da parte del vertice alla risoluzione dei processi critici con strumenti innovativi, compresa la creatività, impedisce al personale di sentirsi sia una risorsa, sia parte integrante di una struttura il cui obiettivo principale dovrebbe essere quello del soddisfacimento dei bisogni della collettività. Affinché il personale possa essere considerato “risorsa umana”, lo si deve coinvolgere nei processi decisionali, in modo che percepisca le mansioni da svolgere come strategiche e finalizzate al perseguimento degli obiettivi. Sembra un concetto banale, eppure sfugge alla presa con estrema facilità o volontà. E’ sufficiente circoscrivere il pensiero a coloro (e sono la maggioranza) che all’interno degli Enti Pubblici vengono relegati a semplici esecutori materiali di decisioni prese dal vertice senza conoscere né il target da realizzare, né l’action che lo ha generato. Eseguono il lavoro senza preoccuparsi minimamente della qualità finale perché ne ignorano l’utilità, agiscono in una direzione solo perché è necessario “legare l’asino dove vuole il padrone”. La differenza tra un vertice eccellente ed uno autoritario emerge nel momento in cui chiede di fare una cosa: il primo fa nascere nel dipendente un sentimento di “senso di appartenenza”, mentre quello autoritario lo martella in maniera ossessionante, preoccupandosi solo di far comprendere alla controparte dove sta l’autorità. L’elemento che spesso il vertice tralascia è il risultato che ottiene:
a) nel primo caso, il lavoratore è motivato a sviluppare un’attività ed il risultato andrà oltre le aspettative perché durante lo svolgimento si innescano meccanismi di autocontrollo delle prestazioni, che consentono di realizzare un lavoro accurato e qualitativamente oltre quello che inizialmente era stato richiesto;
b) nel secondo caso, il lavoro svolto sarà di pessima qualità e privo di utilità.
La leadership dovrebbe essere esercitata in maniera più illuminata e non affliggendo i dipendenti con irritanti toni inquisitori. Ritengo utile, lasciando a ciascun lettore l’interpretazione, riportare alcuni contributi di manager di successo, che hanno percepito l’importanza della strategia motivazionale:
a) Ralph STAYER della JOHNSONVILLE FOODS disse: «Le caratteristiche che mi hanno portato al successo, il mio controllo centralizzato, il mio comportamento aggressivo, le mie procedure di lavoro autoritario stavano creando un contesto che mi ha reso insoddisfatto. Se volevo migliorare i risultati dovevo aumentare il coinvolgimento dei dipendenti nell’attività»;
b) Jim WESSEL della BECTON DICKINSON affermò: «Abbiamo dovuto far superare la concezione secondo la quale “se non ho il controllo, allora deve esserci il controllo”. Abbiamo impiegato un anno per renderci conto di ciò che stava avvenendo, ma alla fine grazie anche al sostegno ricevuto, i dirigenti hanno capito di dover delegare autorità e non solo attività»;
c) Robert HASS della LEVI STRAUSS evidenziò come «In un ambiente aziendale sempre più incostante e dinamico, i controlli devono essere concettuali. Sono le idee a controllare, non i dirigenti in possesso di autorità».
I problemi esistono ed esisteranno sempre. Vanno affrontati con spirito critico e costruttivo accettando anche soluzioni culturalmente lontane dalle convinzioni di ognuno. Ogni procedimento deve essere affrontato come nuovo, anche se consiste in attività di routine o non si ritiene più migliorabile. Occorre convincersi che quella che oggi viene reputata “eccellenza”, domani può essere considerata “mediocrità”, con la consapevolezza che in poco tempo ciò che era fatto “a regola d’arte” potrebbe essere già diventato “inaccettabile”. E’ inutile risolvere il problema della motivazione del personale con tecniche di dumb sizing, ossia una drastica riduzione dell’organico. Pensare di curare la patologia in questa direzione sottovaluta le pesanti conseguenze che genera: il morale di quelli che rimangono collassa attraverso un mix di stress, frustrazione, diminuzione di creatività e relativa disaffezione all’Organizzazione. Sono pochi gli accorgimenti da adottare per motivare i dipendenti, mentre è sufficiente fornire loro una valutazione delle prestazioni non equa per andare nel senso opposto, tale da rendere poi irreversibile un integrale recupero. «La valutazione della performance viene dalla persona che più di tutte può incidere sulle emozioni di un dipendente: il suo capo. E questo cambia significato di tutto quanto. Quel documento può modificare la realtà: il buono può diventare cattivo, il sopra può diventare sotto e l’intelligente può diventare uno stupido. Le valutazioni formalizzate delle prestazioni sono un retaggio del vecchio west: siete spacciati se dovete vedervela con una giuria corrotta e un giudice favorevole all’impiccagione» (William LUNDIN & Kathleen LUNDIN, «Lavorare per un capo non aperto», Franco Angeli, 2000).
AutoreEmanuele COSTA
Pubblicato suSemplice n° 10/Ottobre 2006 con il titolo «Demotivazione»

3 June 2013

L'evoluzione del rapporto tra Pubblica Amministrazione e Cittadino

Negli anni, il ruolo della Pubblica Amministrazione ha subito un’evoluzione, generando, in parallelo, un mutamento del ruolo del Cittadino, che ha cambiato configurazione, passando progressivamente da “suddito” ad “utente” fino ad essere considerato un vero e proprio “cliente” da soddisfare (Figura n° 1).


Il processo di cambiamento che ha interessato la Pubblica Amministrazione ha assunto, tra mille difficoltà, connotati di irreversibilità, in quanto non è pensabile l’inserimento della “retromarcia” per tornare a quei modelli di gestione che inquadravano l’Organizzazione Pubblica come entità separata dal Cittadino, inteso come “suddito” (Figura n° 2).



Storicamente, i soggetti membri di una Comunità erano considerati come dipendenti dalla sovranità dell’Amministrazione Pubblica e, quindi, dovevano adempiere solo ai loro doveri, senza poter esercitare i loro diritti. I bisogni erano soddisfatti dalla Pubblica Amministrazione solo e quando esercitava la volontà di agire e non per effetto di necessità collettive da soddisfare: in altre parole, i prodotti/servizi (P/S) erogati erano indipendenti dai bisogni da soddisfare (B). Il legame tra soggetto pubblico e privato era costituito dall’aspetto “tributario”, rimarcando quella situazione di sudditanza esistente. Nel tempo, la distanza tra Pubblica Amministrazione e Cittadino è andata riducendosi, facendo avvicinare la Pubblica Amministrazione ai bisogni della Comunità di riferimento offrendo prodotti/servizi standard rispetto ai bisogni da soddisfare. Il ruolo del Cittadino si è evoluto, perdendo la qualifica di “suddito” per elevarsi ad una condizione migliore: quella di “utente” (Figura n° 3).



Se lo status del Cittadino è quello di “utente”, allora non è necessario chiedersi se i prodotti/servizi erogati soddisfano i bisogni, in quanto sono questi ultimi che devono trovare soddisfazione in ciò che è offerto dal Settore Pubblico. Il filo che lega il soggetto pubblico a quello privato muta nella forma, ma non nella sostanza e l’aspetto “tributario” è sostituito con il concetto di “risparmio forzoso”, per far comprendere un senso di partecipazione del Cittadino alle spese della Pubblica Amministrazione. Una Pubblica Amministrazione moderna, vicina ai Cittadini, dovrebbe essere capace di erogare prodotti/servizi in grado di soddisfare ogni esigenza personale manifestata dalla Comunità di riferimento. Il Cittadino dovrà essere considerato un vero e proprio “cliente”, in grado di poter scegliere tra più alternative, mentre la Pubblica Amministrazione dovrà prestare attenzione alle sue necessità offrendo prodotti/servizi capaci di soddisfare in maniera differenziata lo stesso bisogno (Figura n° 4).



Il collegamento tra Cittadino e Pubblica Amministrazione subisce un ulteriore trasformazione,  per assumere un significato più vicino alla realtà: il Cittadino non si configura solo come “cliente”, ma anche come “finanziatore” dell’Organizzazione Pubblica. In conclusione, una Pubblica Amministrazione al passo con i tempi deve essere in grado di massimizzare sia i benefici interni (benefici di procedura), che influenzano il tasso di produttività, sia quelli esterni, che incidono sul grado di soddisfazione del cliente (benefici di outcome). Infatti, il soggetto pubblico è al servizio del Cittadino e, quindi, deve prioritariamente garantire la gratificazione dei bisogni esterni e non interni: in altre parole è la Pubblica Amministrazione che deve adattarsi alle esigenze dei Cittadini e non pretendere che gli stessi si adeguino alle sue regole. Se prima si guardava verso l’alto per verificare se il Capo era contento, oggi è sempre più necessario rivolgere lo sguardo fuori dalla finestra per vedere se il cliente manifesta soddisfazione.
AutoreEmanuele COSTA
Pubblicato suSemplice n° 11/Novembre 2012 con il titolo «L'evoluzione del rapporto tra Pubblica Amministrazione e Cittadino»