16 June 2013

Non sono necessari grandi cambiamenti, ma scelte coraggiose per motivare i dipendenti

Il giorno in cui mi sono laureato in Economia e Commercio mi ero promesso che mai avrei prestato attività lavorativa alle dipendenze di una Pubblica Amministrazione. La formazione acquisita in anni di studi economico/aziendali non riusciva a farmi comprendere i meccanismi gestionali di un Ente Pubblico, la sua arretratezza culturale verso regole di amministrazione efficaci, efficienti e altamente produttive di benefit per la collettività. In realtà, in quel periodo, già collaboravo con un Ente Locale presso il Servizio «Risorse Umane» e, dopo un breve periodo di adattamento, avevo percepito come i dipendenti di quell’ufficio, ma più in generale di tutta la struttura pubblica, svolgessero la loro attività in modo routinario, senza avere il minimo interesse verso eventuali miglioramenti o snellimenti da apportare ai processi di lavoro. L’elemento che catturò particolarmente la mia attenzione era l’assenza di strumenti informatici adeguati alle tecnologie dell’epoca. Questa situazione portava ad impiegare la risorsa temporale a disposizione in modo pieno ed aveva la capacità di obbligare il personale ad effettuare prestazioni di lavoro straordinario per fronteggiare carichi di lavoro ai limiti dell’assurdo. Sembrava di essere tornato indietro nel tempo, agli studi superiori, dove si insegnava dattilografia utilizzando obsolete macchine da scrivere. Era difficile pensare ad un ufficio pubblico dove gli applicativi Word ed Excel erano solo parole sentite circolare tra gli adolescenti, che da un paio di anni utilizzavano i computer come materia prima per il loro embrionale approccio al nuovo mondo della videoscrittura e dei fogli di calcolo. Ho avuto l’opportunità, ma direi anche la fortuna, di poter lavorare con colleghi splendidi sotto ogni punto di vista, soprattutto quello umano. Molto mi hanno insegnato e credo anche di aver donato loro qualcosa in termini di propensione alla continua ricerca del miglioramento dei processi. L’introduzione del computer in sostituzione delle ormai superate macchine per la videoscrittura, ha rappresentato la chiave di volta per modificare radicalmente le modalità di svolgimento dell’attività lavorativa. L’ufficio è stato travolto da una corrente di ristrutturazione alla quale si sono nel tempo accompagnati risultati tangibili e apprezzabili. E’ migliorata la qualità sia delle prestazioni, sia dell’ambiente di lavoro, seppure, all’inizio, circoscritta alle quattro pareti dell’ufficio. Sono riuscito a far comprendere l’importanza dell’archivio cosiddetto “americano”, in altre parole il cestino della carta straccia, come metodologia per sistemare tutta quella produzione documentale inutile, ammucchiata grazie allo svolgimento di processi di lavoro con strumenti antiquati, capaci solamente di generare attività ripetitive ogniqualvolta un dito della mano aveva la sfortuna di capitare su un tasto sbagliato della macchina da scrivere. Il miglioramento dei tempi dedicati alle varie procedure ha contribuito a smantellare progressivamente il lavoro arretrato accumulato negli anni. La direzione dell’ufficio è passata da una logica di gestione per “priorità rincorse” a quella per “priorità trascorse”, ricercando costantemente, durante le fasi istruttorie, ulteriori miglioramenti da apportare ai procedimenti in corso. L’attenzione si è focalizzata non solo sui processi innovativi, ma anche e soprattutto su quelli già sperimentati e collaudati. In particolare, era necessario concentrarsi sugli aspetti variabili, eliminando ridondanze e creando le premesse per una gestione efficace ed efficiente della risorsa temporale disponibile. L’obiettivo dell’innovare i processi era quello di far comprendere e condividere come la riduzione della quantità del lavoro di ufficio non significasse “lavorare o produrre di meno”, ma migliorare la qualità, l’efficacia, il controllo sistematico dei procedimenti, generando risorse temporali da dedicare ad altre attività. E’ stata progressivamente superata la logica di quel pensiero burocratico, che ancora oggi purtroppo circola tra le mura delle Amministrazioni Pubbliche, fondata sul principio del “si è sempre fatto così e bisogna continuare a fare così”, per orientarla verso soluzioni maggiormente aderenti alle effettive esigenze. Nel 1922 Henry FORD disse: «Ho visto grandi business diventare nient’altro che il fantasma di un nome perché alcuni hanno creduto di poter continuare a gestire gli affari come avevano sempre fatto; e anche se la gestione era stata la migliore in assoluto a quei tempi, la supremazia consisteva nella capacità di essere al passo con i tempi, non in una pedissequa imitazione dei tempi passati». Nonostante siano trascorsi oltre ottant’anni, ciò che disse FORD è ancora di amara, se non triste, attualità, non perché consiste in una ricetta ancora valida per risolvere i problemi all’interno dell’Ente, ma perché si trovano ancora soggetti, che avendo il potere decisionale, lo usano con miopia strategica, senza che si riesca a comprendere l’utilità di un simile comportamento. E’ naturale che pur pubblicizzando la ricerca di formule innovative, in realtà nessuno le vuole finché qualcun altro le abbia già sperimentate con successo. Una scarsa propensione al cambiamento non farà mai percorrere all’Ente, inteso come insieme di persone, quel percorso culturale che lo renderà un domani percettore dei bisogni latenti, prima del loro manifestarsi. Graham WILSON rilevò in un suo scritto come «Il problema dei dirigenti superiori è in parte l’assenza di qualunque idea alternativa. Spesso essi sono formati con la convinzione che esiste un solo metodo per organizzare l’azienda e, siccome, le loro idee si uniformano a questo modello, deve essere tutto giusto» (Graham WILSON, «Making change happen», Pitman Publishing, 1993). La scarsa attenzione allocata da parte del vertice alla risoluzione dei processi critici con strumenti innovativi, compresa la creatività, impedisce al personale di sentirsi sia una risorsa, sia parte integrante di una struttura il cui obiettivo principale dovrebbe essere quello del soddisfacimento dei bisogni della collettività. Affinché il personale possa essere considerato “risorsa umana”, lo si deve coinvolgere nei processi decisionali, in modo che percepisca le mansioni da svolgere come strategiche e finalizzate al perseguimento degli obiettivi. Sembra un concetto banale, eppure sfugge alla presa con estrema facilità o volontà. E’ sufficiente circoscrivere il pensiero a coloro (e sono la maggioranza) che all’interno degli Enti Pubblici vengono relegati a semplici esecutori materiali di decisioni prese dal vertice senza conoscere né il target da realizzare, né l’action che lo ha generato. Eseguono il lavoro senza preoccuparsi minimamente della qualità finale perché ne ignorano l’utilità, agiscono in una direzione solo perché è necessario “legare l’asino dove vuole il padrone”. La differenza tra un vertice eccellente ed uno autoritario emerge nel momento in cui chiede di fare una cosa: il primo fa nascere nel dipendente un sentimento di “senso di appartenenza”, mentre quello autoritario lo martella in maniera ossessionante, preoccupandosi solo di far comprendere alla controparte dove sta l’autorità. L’elemento che spesso il vertice tralascia è il risultato che ottiene:
a) nel primo caso, il lavoratore è motivato a sviluppare un’attività ed il risultato andrà oltre le aspettative perché durante lo svolgimento si innescano meccanismi di autocontrollo delle prestazioni, che consentono di realizzare un lavoro accurato e qualitativamente oltre quello che inizialmente era stato richiesto;
b) nel secondo caso, il lavoro svolto sarà di pessima qualità e privo di utilità.
La leadership dovrebbe essere esercitata in maniera più illuminata e non affliggendo i dipendenti con irritanti toni inquisitori. Ritengo utile, lasciando a ciascun lettore l’interpretazione, riportare alcuni contributi di manager di successo, che hanno percepito l’importanza della strategia motivazionale:
a) Ralph STAYER della JOHNSONVILLE FOODS disse: «Le caratteristiche che mi hanno portato al successo, il mio controllo centralizzato, il mio comportamento aggressivo, le mie procedure di lavoro autoritario stavano creando un contesto che mi ha reso insoddisfatto. Se volevo migliorare i risultati dovevo aumentare il coinvolgimento dei dipendenti nell’attività»;
b) Jim WESSEL della BECTON DICKINSON affermò: «Abbiamo dovuto far superare la concezione secondo la quale “se non ho il controllo, allora deve esserci il controllo”. Abbiamo impiegato un anno per renderci conto di ciò che stava avvenendo, ma alla fine grazie anche al sostegno ricevuto, i dirigenti hanno capito di dover delegare autorità e non solo attività»;
c) Robert HASS della LEVI STRAUSS evidenziò come «In un ambiente aziendale sempre più incostante e dinamico, i controlli devono essere concettuali. Sono le idee a controllare, non i dirigenti in possesso di autorità».
I problemi esistono ed esisteranno sempre. Vanno affrontati con spirito critico e costruttivo accettando anche soluzioni culturalmente lontane dalle convinzioni di ognuno. Ogni procedimento deve essere affrontato come nuovo, anche se consiste in attività di routine o non si ritiene più migliorabile. Occorre convincersi che quella che oggi viene reputata “eccellenza”, domani può essere considerata “mediocrità”, con la consapevolezza che in poco tempo ciò che era fatto “a regola d’arte” potrebbe essere già diventato “inaccettabile”. E’ inutile risolvere il problema della motivazione del personale con tecniche di dumb sizing, ossia una drastica riduzione dell’organico. Pensare di curare la patologia in questa direzione sottovaluta le pesanti conseguenze che genera: il morale di quelli che rimangono collassa attraverso un mix di stress, frustrazione, diminuzione di creatività e relativa disaffezione all’Organizzazione. Sono pochi gli accorgimenti da adottare per motivare i dipendenti, mentre è sufficiente fornire loro una valutazione delle prestazioni non equa per andare nel senso opposto, tale da rendere poi irreversibile un integrale recupero. «La valutazione della performance viene dalla persona che più di tutte può incidere sulle emozioni di un dipendente: il suo capo. E questo cambia significato di tutto quanto. Quel documento può modificare la realtà: il buono può diventare cattivo, il sopra può diventare sotto e l’intelligente può diventare uno stupido. Le valutazioni formalizzate delle prestazioni sono un retaggio del vecchio west: siete spacciati se dovete vedervela con una giuria corrotta e un giudice favorevole all’impiccagione» (William LUNDIN & Kathleen LUNDIN, «Lavorare per un capo non aperto», Franco Angeli, 2000).
AutoreEmanuele COSTA
Pubblicato suSemplice n° 10/Ottobre 2006 con il titolo «Demotivazione»

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