29 September 2013

Qual è il fine del governare la res publica?

Se è vero che Aristotele ha esaminato il ruolo dello Stato in materia economica, corrisponde ad altrettanta verità che lo ha fatto tenendo ben fermo il principio che il “fine dello Stato è il vivere bene”, nel senso che ogni Pubblica Amministrazione deve essere in grado di garantire maggior benessere al suo popolo. Non è facile, invece, individuare quale sia il fine nel comportamento assunto dagli Amministratori Pubblici e, conseguentemente, se gli obiettivi della loro gestione siano improntati al perseguimento di quei benefici che la Comunità di riferimento ha il diritto di reclamare. Purtroppo, si constata come il ruolo da essi ricoperto non sempre sia all’altezza delle responsabilità che si incontrano nel governare la “cosa pubblica”. Infatti, in ossequio alla compiacenza con l’uno o l’altro burocrate di turno si licenziano bilanci che esprimono tutt’altro di ciò che in realtà devono rappresentare.  Così accade che quella parvenza di corretta applicazione di norme, sia puntualmente disattesa con l’approssimarsi delle scadenze che impongono la verifica del mantenimento degli equilibri generali. A farne le spese sono sempre i Cittadini, colpevoli di necessitare di quei bisogni essenziali, come l’istruzione od i servizi sociali, che in futuro saranno tagliati, per effetto della scure dell’incapacità amministrativa. Sanzionare i responsabili per previsioni del tutto fuorvianti dall’elementare applicazione del principio della prudenza non è mai all’ordine del giorno. Se così fosse, infatti, non sarebbe possibile mantenere in vita quei giochi di complicità, che costituiscono il perno intorno al quale ruotano le cattive gestioni. E’ molto più semplice punire i Cittadini perché, una volta espressa la loro preferenza nell’urna, nulla può essere elemosinato da loro fino alla prossima campagna elettorale. Eppure, non costerebbe nulla allontanarsi dal quel comportamento mosso dall’interesse personale in direzione di quello che Michio MORISHIMA chiama “ethos giapponese”, costituito da senso del dovere, lealtà e buona volontà, che hanno sempre prodotto il successo di qualsiasi politica.
AutoreEmanuele COSTA
Pubblicato suhttp://cambiamentoorg.blogspot.com il 03 settembre 2010 con il titolo «Qual è il fine del governare la res publica?»

14 September 2013

L'opportunità di una società partecipata

Quotidianamente il Cittadino si trova ad impattare con l’attività della Pubblica Amministrazione. Sono una rarità i casi in cui da questo incontro ravvicinato ne esca vincitore, poiché il potere d’imperio cui dovrebbe ispirarsi l’azione amministrativa del Settore Pubblico lo colloca sempre al di fuori di ogni ragionevole dubbio. Tutto ciò non sarebbe fonte di preoccupazione se l’esercizio di questa supremazia andasse nella direzione volta a soddisfare i sempre più numerosi bisogni della platea di riferimento. Per contro, l’uomo della strada sembra aver ereditato, o contratto, il morbo della “insoddisfazione perenne”, perché qualunque sia il colore di una decisione pubblica, il parere rimane stabilmente collocato nell’alveo della contrarietà. Per ovviare a questo malessere diffuso potrebbe essere utile poter sfruttare l’opportunità offerta da una società partecipata, nella quale a decidere le sorti del loro futuro sono direttamente i Cittadini, con le modalità assicurate da questo strumento. All’Organo esecutivo della Pubblica Amministrazione resterebbe solo, in via residuale, il delicato compito di gestire gli input provenienti dalla Comunità che rappresenta e, soprattutto, nel loro esclusivo interesse. La realtà, purtroppo, ha abituato l’essere umano ad altri scenari e spesso lo costringe ad aprire gli occhi su conseguenze ben diverse, il più delle volte frutto di distorsioni comunicative o, per meglio dire, interpretative sul vero significato di società partecipata. Infatti, se il riferimento è allo specifico caso di cui sopra, l’obiettivo è quello di consentire ai Cittadini di scegliere tra opzioni diverse ed aventi un unico denominatore comune: il loro interesse. Nella seconda fattispecie, invece, la finalità perseguita è quella di creare speciali contenitori ai quali demandare la gestione di risorse pubbliche, lasciando all’interno della struttura madre solo determinate attività che, pur avendo diversa natura, hanno anche loro un denominatore comune o, meglio, una destinazione univoca: il portafoglio del Cittadino. E la prassi sembra essere sempre questa, altrimenti avrebbe un altro nome. Infatti, quando si presenta l’opportunità di privilegiare l’interesse del Cittadino si tende a ricorrere a qualsiasi espediente per far sì che, grazie ad una diversa interpretazione del medesimo concetto, tutto sia tutelato al di fuori di quella che era l’originaria finalità. Un esempio, può aiutare a chiarire il significato di questo pensiero. Con le cosiddette “privatizzazioni” l’intenzione era quella di affidare ad un soggetto privato la gestione di alcuni servizi (o la produzione di alcuni beni) affinché, grazie ad una amministrazione più efficiente rispetto a quella svolta dal settore pubblico, potesse scaturire una riduzione dei costi e, quindi, a cascata dei prezzi. Ciò avrebbe consentito ai Cittadini di avvantaggiarsi di tutti i benefici nascenti e conseguenti. E’ inutile richiamare alla memoria come sia andata a finire. Può essere sufficiente pensare alla gestione degli acquedotti pubblici affinché ogni individuo di buona volontà possa razionalmente trarre, nel suo intimo, le personali conclusioni. Quindi, grazie a questa filosofia operativa è possibile influenzare negativamente anche quella società partecipata che era stata ideata con le migliori premesse. Arrivati a questo punto della riflessione la deformazione professionale tende a chiamare in causa una simpatica storiella. L’obiettivo è quello di agevolare la comprensione di un fenomeno complesso, esplodendolo nelle sue elementari componenti, utilizzando semplici operazioni di aritmetica di base. E come tutte le favole che si rispettano, l’incipit è noto a tutti. «C’era una volta un piccolo regno dove risiedevano solo 100 anime. Una piccola comunità, molto attiva che, per effetto del loro interagire quotidiano, si era resa colpevole di produrre rifiuti. L’Amministrazione Reale, retta dal Sovrano di turno, aveva tra gli obiettivi quello di garantire il benessere dei suoi Sudditi. Venne, quindi, organizzata la raccolta dei rifiuti sul territorio del regno. Ben presto, i ragionieri della corona si accorsero che l’attività di pulizia comportava un costo pari a 1000. E poiché in un recente passato era stata emanata una legge sovrana che imponeva la copertura di questo onere al 100%, il Re deliberò che ogni Suddito avrebbe dovuto pagare una “tassa sui rifiuti” pari a 10 (ossia 1000 diviso il numero di abitanti 100)». Oggi questo “contributo” pro-capite si chiamerebbe TARES, ma poiché l’acronimo sembra indicare qualcosa che l’Amministrazione Pubblica dà, mentre in realtà prende, nella storiella si è preferito fare riferimento ad una volgare “tassa sui rifiuti”, perché di questo in fondo si tratta. Fin qui, quindi, nulla di trascendentale. La favola ha saputo rendere tutto più chiaro, semplice, lapalissiano. Ma il racconto non finisce qui, perché ogni fiaba deve avere un lieto fine. «Nel regno esisteva, in prossimità del lago, un’area che poteva rendere il territorio più fiorente, generando ulteriori risorse da destinare al benessere del popolo. Il Sovrano decise di destinare quell’area ad un mercato, mettendo a disposizione 20 “posti banco”, che potevano essere noleggiati per la vendita dei prodotti locali. L’iniziativa si prospettò un successo, ma presto ci si rese conto che anche il mercato produceva rifiuti. Poiché la fiera era ubicata nel regno, occorreva provvedervi. Sua Maestà, oculatamente consigliato dai contabili del reame, decise di estendere il contratto di pulizia anche al suolo destinato al mercato. Questa pulizia implicava un costo supplementare pari a 300 e, non potendo esimersi dall’applicare la legge sovrana di copertura al 100%, il Monarca decise che, per un principio di equità e giustizia, avrebbero dovuto farsene carico solo coloro che avevano preso a nolo i “posti banco”, perché in fin dei conti erano responsabili in prima persona della produzione di quei rifiuti specifici. Pallottoliere alla mano, emerse che ogni utilizzatore del “posto banco” doveva pagare una “tassa sui rifiuti” per 15 (dato da 300 diviso il numero dei “posti banco” 20)». A questo punto della fiaba è necessario un breve riepilogo. Per chi avesse perso il filo di Arianna, il costo totale del servizio di pulizia è pari a 1300 ripartito equamente tra i Sudditi (1000), tassati per 10 a testa, e coloro che prendevano a nolo i “posti banco” (300), tassati per 15 a testa. Ed ecco, finalmente, arrivato il lieto fine. «Dopo qualche tempo, l’attività del mercato non piacque al Sovrano perché appesantiva la burocrazia del regno. Emise un editto con il quale trasferì la gestione del mercato ad un contenitore magico appositamente creato. Decise dall’alto della sua autorità di chiamarlo “società partecipata”. All’Amministrazione Reale rimase l’obbligo di continuare a pulire l’intero territorio perché anche l’area sulla quale insisteva il mercato era di proprietà della corona e non della neonata creatura della “società partecipata”. Grazie a quella “illuminata” decisione, i Sudditi dovettero farsi carico dei costi di pulizia del territorio per 1300, che nel rispetto della legge sovrana di copertura dei costi al 100%, corrispondeva ad una “tassa sui rifiuti” pro-capite di 13 (dato da 1300 diviso il numero degli abitanti 100). Un “magico” aumento del 30% rispetto alla precedente contribuzione individuale di 10. E tutto ciò in virtù non di servizi migliori, ma grazie a quella scatola magica della “società partecipata”, nella quale le decisioni avrebbero dovuto appartenere al popolo e che, contrariamente alla generale percezione, si era tradotta in una effettiva spoliazione di attività. Da quel giorno, grazie a Sua Maestà, quei Sudditi smisero di vivere felici e contenti». Ogni decisione pubblica dovrebbe sempre ispirarsi al principio del “no taxation without representation”, per ricordare al popolo che ciò su cui un Sovrano non ha diritto di chiedere, il Cittadino ha il diritto di rifiutare. Ed è proprio in questo che consiste la vera società partecipata!
AutoreEmanuele COSTA
Pubblicato suwww.tigulliana.org (nella Rubrica "Diritto di Parola") del 14 settembre 2013 con il titolo «L'opportunità di una società partecipata»

1 September 2013

Qual è l'effetto dell'indebitamento locale?

Non c'è miglior strategia per nascondere una notizia inquietante che quella di renderla pubblica, distraendo, però, i lettori con altre informazioni e/o pettegolezzi che, solitamente, rappresentano l'ultima moda del periodo estivo. Il riferimento è alla situazione debitoria dei Comuni su base nazionale, augurandomi che quella locale possa costituire una best practice, se non, addirittura, ergersi ad eccellenza sotto il profilo meritocratico della sana gestione finanziaria. La stessa Magistratura contabile mette in luce evidenti criticità che emergono dai bilanci comunali: un debito accumulato nel tempo che oggi sfiora i 62 miliardi di euro, con la conseguente media pro-capite che va a collocarsi in un intorno ristretto ai 1.100,00 euro, che sale a 1.300,00 euro se si considera anche l'impatto delle Province. L'allarme lanciato dalla Corte dei Conti investe, soprattutto, non l'entità del debito, ma la sua sostenibilità futura, il cui onere è, oggi, sempre più coperto attingendo a risorse straordinarie, pur gravando interamente sui Cittadini. Se oggi non fossimo a fare i conti con una crisi economica che drena sempre più i redditi personali, l'alternativa sarebbe costituita dalla leva fiscale. Se fosse azionata, alto sarebbe il rischio di trasformarla in un boomerang per l'Amministrazione Locale. I Cittadini, purtroppo, non partecipano alle decisioni politiche del Sindaco, limitando la manifestazione del loro pensiero nell'urna elettorale al momento del voto. Il Primo Cittadino, una volta investito del mandato, è legittimato a prendere decisioni. Queste, però, dovrebbero consapevolmente e responsabilmente rispecchiare l'interesse collettivo. Il continuo ricorso all'indebitamento per risolvere i problemi locali o per attuare investimenti non produttivi, certamente non sembra andare nella giusta direzione. I Cittadini si trovano sempre più indebitati per scelte non dipendenti dalla loro volontà e senza poterne trarre alcun beneficio. Perché non viene spiegata ai Cittadini la politica degli investimenti mettendoli anche al corrente degli oneri che, sotto forma di quota capitale e interessi, gravano sulle loro tasche? Probabilmente, perché il cosiddetto "effetto Trilussa" sarebbe svelato.
AutoreEmanuele COSTA
Pubblicato suhttp://cambiamentoorg.blogspot.com il 19 agosto 2010 con il titolo «Qual è l'effetto dell'indebitamento locale?»