29 January 2014

La produttività dei miracoli

Parlare di produttività del lavoro in Italia è sempre stato un tabù. Non appena si pronuncia questa parola magica, scattano immediatamente rivendicazioni sindacali tali da indurre i promotori dell’argomento ad innescare rapidamente la retromarcia su qualsiasi proposta orientata in questa direzione. La crisi economica, che ormai si trascina da qualche anno e non lascia intravvedere all’orizzonte una definitiva via d’uscita, non permette di incrementare ulteriormente sia il costo del lavoro, sia quello legato ad ulteriori investimenti. Si rischierebbe il collasso del sistema produttivo su sé stesso e la fine di qualsiasi pretesa non solo salariale, ma anche occupazionale. L’Italia si sta lentamente incamminando dentro un circolo vizioso dal quale poi sarà difficile venirne fuori se non con politiche/strategie al limite della sopportazione. Occorre già ora mettere in moto meccanismi correttivi capaci di produrre quella “grande spinta” in grado di riportare il Paese lungo il cammino della crescita economica. I benefici occupazionali e salariali seguiranno automaticamente a ruota. Deve essere chiaro sin dall’inizio della discussione che non è dall’aumento delle retribuzioni o dalla riduzione della disoccupazione che si genera una maggiore produttività. E' proprio l’esatto contrario. Occorre, tuttavia, avere la pazienza di attendere che i benefici siano capitalizzati prima di agire sul secondo fronte. Purtroppo, oggi, non si vuole più aspettare. Chi è preposto alla difesa dei lavoratori pretende “tutto e subito” e non è disposto a valutare costruttivamente altre potenziali alternative. Se non si metteranno in discussione questi comportamenti organizzativi, presto ci si dovrà rendere conto che a farne le spese saranno solo i lavoratori, che dovranno miseramente accettare “niente e mai”. E' necessario prendere coscienza che aumentare il rendimento del lavoro significa solamente incrementare la produzione di “olio di gomito”, senza poter avere nell’immediato alcuna contropartita, ma solo la consapevolezza che ciò rappresenta un proficuo investimento per la crescita economica ed il miglioramento delle dinamiche occupazionali e salariali. E' da questa prospettiva che si deve affrontare il problema e non attraverso obsolete miopie strategiche che nel tempo non hanno mai prodotto alcun risultato, se non quello di aver peggiorato situazioni pregresse. Non si può demolire un qualcosa che non esiste. Per poter distruggere, nel senso di assorbire/consumare/redistribuire, la ricchezza occorre prima di tutto edificare le premesse per una sua perpetua creazione nel tempo. In alternativa, si dovrà tristemente prendere atto che si sta progressivamente distruggendo, in questo caso nel vero senso della parola, quelle poche risorse che ancora sono rimaste.
AutoreEmanuele COSTA
Pubblicato suIl Nuovo Picchio n° 10-11/Ottobre-Novembre 2013 con il titolo «La produttività dei miracoli»

18 January 2014

L'insostenibile ignoranza dell'essere

L'inarrestabile progresso tecnologico comporta, da un lato, un perpetuo mutamento sia dei bisogni collettivi, sia delle tecniche da adottare per il loro soddisfacimento e, dall'altro, una crescente riduzione dei tempi a disposizione del pertinente processo decisionale. Oggi, non è più possibile insistere nel sostenere filosofie di pensiero che rispolverano soluzioni arcaiche, anche se sperimentate e collaudate con successo. Esse, infatti, non solo sono state le principali responsabili degli odierni problemi, ma non sono mai state sottoposte ad una revisione critica perché, una volta individuate, si è pensato, erroneamente, che potessero essere valide per l'eternità. Poiché il processo di sviluppo è, per definizione, destinato a migliorare istantaneamente lo stato dell'arte (altrimenti si chiamerebbe diversamente), i decisori pubblici di preistorica provenienza risultano scarsamente adeguati a guidare un Paese. Infatti, se il processo di crescita non è stato accompagnato da un analogo sviluppo della conoscenza, i meccanismi decisionali sono rimasti ancorati a stereotipi che, benché fondati sull'esperienza, sono palesemente "old fashioned". Ed il pericolo di affidare la guida di un Paese a simili personaggi è insita nel loro stesso comportamento, spesso autoreferenziale e autoritario, che li spinge a credere di non aver bisogno di sottoporsi ad alcuna operazione di lifting. Anche se riferito ad un'Organizzazione privata, la sostanza non si discosta da quanto affermato da Robert D. HAAS, manager della LEVI STRAUSS & Company: «In un ambiente aziendale sempre più incostante e dinamico, i controlli devono essere concettuali. Sono le idee a controllare, non i dirigenti in possesso di autorità». Questo concetto elementare, peraltro, era già stato messo in evidenza, nel lontano 1861, da John Emerich Edward DALBERG-ACTON, storico e politico britannico, meglio noto alle cronache come Lord ACTON. Con parole magistrali aveva sostenuto che: «Ci sono due cose che non possono essere attaccate frontalmente: l'ignoranza e la ristrettezza mentale. Le si può soltanto scuotere con il semplice sviluppo delle qualità opposte. Non tollerano la discussione». Da ciò deriva la semplice constatazione che se i due elementi distintivi citati non possono essere fronteggiati direttamente, allora l'alternativa consiste nella loro rimozione. E l'unica strada percorribile è quella di orientare la propria preferenza elettorale in opposta direzione. Infatti, se ciò non dovesse accadere ed il potere rimanesse in mano a soggetti che predicano il rinnovamento, ma nella continuità, l'unica via da imboccare è quella di fuga. Dello stesso avviso è il pensiero elaborato recentemente da Giovanni SORIANO ("Malomondo - In lode della stupidità", 2013), che illustra senza mezzi termini la soluzione più idonea se dovesse prevalere questa circostanza: «Quando ci si trova dinanzi l'ignoranza - se non l'aperta stupidità - mista alla presunzione, è il momento di darsela a gambe. E anche in fretta». Sarà forse questo uno dei motivi che hanno influenzato negativamente il tasso di residenzialità di un paese? Difficile sostenerlo, ma potrebbe essere interessante approfondire l'analisi dinamica del fenomeno. Quindi, è opportuno porre l'accento su un principio cardine: «L'unico pericolo sociale è l'ignoranza». Lo aveva sostenuto Victor HUGO ne "I miserabili" (1862). Alla luce dei fatti, quell'appello pare sia stato sempre inascoltato: l'ignoranza ha reso miserabile il Cittadino, nel senso che ha contribuito a peggiorarne il benessere e la condizione sociale. Anche SOCRATE, nel III secolo, aveva già intravisto, nella sua lungimirante visione, la pericolosità di questa caratteristica intellettuale. Il filosofo greco aveva sancito che «esiste un solo bene, la conoscenza, e un solo male, l'ignoranza». Viene, quindi, da chiedersi come sia stato possibile che, nel corso dei secoli, abbia sempre prevalso il maligno sul suo antagonista. La conoscenza è oggi vista come una risorsa intellettuale da sfruttare nei paesi che sanno attribuire alla meritocrazia il giusto valore. In Italia, e a livello locale ancor più marcatamente, i soggetti in possesso di conoscenza sono tacciati di supponenza, di presunzione e, spesso, passano per antipatici. Al contrario, sono individui educati a dire o scrivere ciò che pensano e con cognizione di causa. Ed è proprio la ragione logica delle loro elaborate riflessioni che infastidisce o irrita il prossimo, perché non lascia spazio ad altre interpretazioni se non quelle che le parole usate vogliono realmente significare. Ma anche in queste specifiche circostanze si inseriscono subdoli personaggi, che la dottrina identifica negli "yesman" (o più volgarmente, secondo la dottrina anglosassone, "asslicker"), che sostengono di aver capito l'esatto contrario solo per il ludico fine di intorbidire le acque, fuorviando ed ingannando l'innocente lettore per timore di perderne il consenso. Eppure non dovrebbero esserci difficoltà nel percepire che si tratta di individui per i quali, per dirla con le parole del giornalista e saggista americano Henry Louis MENCKEN, «è difficile far capire qualcosa ad un uomo il cui reddito dipenda dal suo non capire». Anche in questa occasione emerge con prepotenza non solo quell'insostenibile ignoranza dell'essere che campa sul servilismo, ma anche quella che caratterizza la stupidità del padrone. Ed è proprio Charles-Louis de MONTESQUIEU che, ne "Lo spirito delle Leggi" (1748), disegna questo quadro: «L'obbedienza estrema presuppone ignoranza in colui che obbedisce; la presuppone anche in colui che comanda; questi non ha da deliberare, da dubitare, da ragionare, non ha che da volere». Non è forse giunto il momento di far tesoro dell'insegnamento ricevuto da bambini per far comprendere a questi personaggi che "l'erba voglio non cresce nemmeno nel giardino del Re?".
AutoreEmanuele COSTA
Pubblicato suwww.tigulliana.org (nella Rubrica "Diritto di Parola") del 18 gennaio 2014 con il titolo «L'insostenibile ignoranza dell'essere»

5 January 2014

Promesse al vento

«Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell'interesse esclusivo della Nazione». Quante volte abbiamo ascoltato questo ritornello cantilenante? Difficile dirlo con esattezza. Eppure, in prima approssimazione, sarebbe sufficiente una semplice operazione aritmetica: moltiplicare il numero dei Governi che, dal dopoguerra ad oggi, si sono avvicendati per il numero dei Ministri che sono stati nominati. Ma quanto di vero e rispettoso per le Istituzioni si può rintracciare in quella formula magica recitata all’inizio di ogni legislatura, in occasione di eventuali rimpasti o formazione di nuove maggioranze? Anche in questa circostanza è abbastanza arduo tentare di fornire una risposta precisa. Con un distinguo, però, rispetto al medesimo interrogativo posto all’inizio di questa breve riflessione. Nel primo caso, infatti, il numero ricercato tende ad un ipotetico “infinito”, per sottolineare che si tratta, comunque, di una cifra elevata. Nel secondo caso, al contrario, il numero da decifrare tende ad un intorno ravvicinato di “zero”, per rendere l’idea che appaiono rare le volte in cui la formula adoperata è rispettata alla lettera. Come leggere o interpretare il significato di un giuramento di tale tenore alla luce di vicende che, nel corso degli anni, si sono via via succedute? Come attribuire validità e veridicità ad una recita nelle mani del Presidente della Repubblica? Come valutare ogni successiva critica da parte dei Ministri al delicato, quanto prezioso, lavoro dei Magistrati ed al contenuto delle Sentenze? Come decodificare ogni proposta di legge, che spesso porta orgogliosamente il nome dei Ministri proponenti, di fronte ad una successiva dichiarazione di incostituzionalità pronunciata dalla “Consulta”? Tutti interrogativi legittimi, destinati ad un serio approfondimento per non rimanere senza risposta. Eppure, una soluzione la si potrebbe facilmente individuare nell’adottare un comportamento votato al rispetto di quelle Istituzioni nei confronti delle quali si è proprio giurato fedeltà all’inizio di un mandato governativo: decadenza automatica dalla carica, senza alcuna possibilità di appellarsi al Parlamento per un voto di convalida. Questa soluzione potrebbe rappresentare un meccanismo molto semplice per conferire un valore più elevato alla pratica del giuramento e garantire l’assunzione di senso di responsabilità nell’esercizio del proprio mandato. In caso contrario, quella formula potrebbe tradursi in un rito inutile che va a rafforzare l’idea, ormai diffusa, che in Italia tutto si fa per poi non essere rispettato, alla stregua di una promessa non mantenuta che, nel caso di un giuramento, trova la sua essenza vitale.
AutoreEmanuele COSTA
Pubblicato suIl Nuovo Picchio n° 1o-11/Ottobre-Novembre 2013 con il titolo «Giuramento di fedeltà alla Repubblica, promesse al vento»