21 December 2016

Globalizzazione e Offshoring: quali sono i potenziali effetti su occupazione e salari? (ultima parte)

Premessa
Durante la mia permanenza in Inghilterra, presso la prestigiosa University of Essex, ho avuto l’opportunità di realizzare alcuni lavori di approfondimento su tematiche di economia internazionale di forte attualità. Nello specifico, si tratta di argomenti che, ogni anno, emergono con prepotenza quasi a voler ricordare che nulla è stato fatto per risolvere le questioni o, in alternativa, che non si è ancora trovata alcuna soluzione a problematiche che interessano da vicino, direttamente o indirettamente, sia i Paesi in via di sviluppo, sia quelli sviluppati. Uno dei temi sui quali ho voluto concentrare l’attenzione è quello della cosiddetta “globalizzazione”, vista, da alcuni, come la causa di tutti i mali dell’economia e, da altri, come la principale imputata nel processo contro la persistente crisi economica. Ovviamente, è necessario sempre tenere a mente che ciò che sembra, non sempre coincide con la realtà. Da qui la crescente curiosità di indagare a fondo eventuali relazioni tra globalizzazione e politiche di offshoring per verificare, sotto il profilo teorico, gli effetti su occupazione e salari. Quando si affrontano tematiche di questo tenore, la speranza è quella di dar vita ad un acceso dibattito. Pertanto, eventuali opinioni in disaccordo non potranno altro che dimostrare di aver centrato l’obiettivo.

Abstract
La teoria del commercio internazionale suggerisce che quando un Paese trasferisce parte della sua produzione all’estero, l’impatto sui lavoratori in quel Paese, nel lungo periodo, può essere positivo o negativo. Questo studio analizza, teoricamente, le conseguenze occupazionali e salariali nei paesi sviluppati indotti dalle politiche di delocalizzazione adottate negli ultimi trent’anni. Il principale obiettivo è quello di verificare se il processo di globalizzazione possa considerarsi la principale causa della disoccupazione o, in alternativa, se abbia giocato un ruolo chiave nella crisi economica che persiste nei paesi occidentali.

Sommario
1. Introduzione - 2. Parola d’ordine: globalizzazione - 3. Offshoring: esportare occupazione per ridurre i salari interni? - 4. Conclusioni.

(segue)

4. Conclusioni
Nei paesi industrializzati, la globalizzazione è comunemente ritenuta la causa principale dell’attuale crisi economica. Si tratta di un processo, iniziato circa trent’anni fa, che ha coinvolto prima i paesi dell’Europa orientale e poi le economie meno sviluppate. In breve, il mondo intero. Questo fenomeno, però, ha generato nuove opportunità di business, grazie anche al contributo fornito dalle politiche di offshoring. Tuttavia, si può affermare, come sostiene l’economista Alan Stuart BLINDER (“Offshoring: The Next Industrial Revolution?”, Foreign Affairs, Vol. 85, n° 2, March/April 2006), che la delocalizzazione costituisce il punto di partenza per una nuova rivoluzione industriale? La crisi economica del 2007 è una recessione iniziata dal settore dei servizi (in particolare, da quello finanziario), mentre la crisi del 1930 (Grande Depressione) era stata originata dal settore industriale. Quindi, le imprese industriali e di servizi hanno cominciato a spostare parte della loro produzione all’estero e, nello specifico, verso i paesi in via di sviluppo dove il costo del lavoro era, ed è ancora, più conveniente. I miglioramenti registrati nel settore tecnologico e dei trasporti hanno contribuito a ridurre sensibilmente i costi di natura commerciale. Conseguentemente, la produzione si è sempre più trasferita nei paesi meno sviluppati. L’effetto immediato è stato l’aumento della disoccupazione, con particolare riferimento alle lavorazioni ad alta intensità di manodopera, sfruttando la forza lavoro, abbondante ed economica, dei paesi poveri. Lo studio qui condotto, dopo aver preso in considerazione le conseguenze della globalizzazione, con particolare riferimento all’offshoring, si è concentrato sugli effetti di breve e lungo periodo nella prospettiva di analizzare l’effetto netto prodotto dal processo di aggiustamento, che permette di stemperare l’impatto negativo grazie all’assorbimento di quei lavoratori espulsi dai settori produttivi in recessione. La ricerca ha anche messo in evidenza come la produttività giochi un ruolo importante sull’occupazione e, a cascata, sui salari. In ogni caso, non esistono prove significative a sostegno della tesi che la delocalizzazione della produzione generi un incremento delle retribuzioni. Una variazione del salario può anche essere analizzata con riferimento a quello nominale, reale e relativo. Infatti, mentre la retribuzione nominale può migliorare a causa di una maggiore produttività, quella reale può ridursi per effetto dell’inflazione. In aggiunta, se il salario reale si riduce, quello relativo rispetto ai paesi in via di sviluppo aumenta. Secondo Ann HARRISON e Margaret McMILLAN (“Offshoring Jobs? Multinationals and U.S. Manufacturing Employment”, The Review of Economics and Statistics, Vol. 93,  n° 3, 2011) l’offshoring guida verso una riduzione dei salari a causa dell’aumento occupazionale nei paesi poveri. Infine, questo lavoro ha anche esaminato qualche variabile economica omessa, come l’istruzione, l’immigrazione ed i profitti, che possono condizionare significativamente le analisi empiriche sugli effetti finali della delocalizzazione. Riassumendo, si può sostenere che l’offshoring sembra portare ad un sostanziale cambiamento nei processi produttivi, fonte di effetti positivi e negativi sull’occupazione e salari all’interno dei paesi sviluppati. Tuttavia, non si può affermare con certezza che la delocalizzazione ha solo effetti positivi (o negativi) sui salari. E’ possibile che, nel lungo periodo, l’impatto sia molto più significativo grazie ad un nuovo equilibrio nel mercato del lavoro. Se i paesi industrializzati si specializzano solo nelle produzioni che richiedono manodopera qualificata, allora ciò potrebbe portare ad un effetto finale diverso, ma non esistono prove concrete che l’unico impatto consisterà in un salario più alto. Le variabili omesse considerate nello studio (istruzione, immigrazione e profitti) possono essere utili per valutare se le ipotesi teoriche sono supportate anche dall’analisi empirica, fornendo al governo importanti e utili informazioni per bilanciare effetti positivi o negativi attraverso appropriate politiche fiscali/sociali.

AuthorEmanuele COSTA
Published byBacherontius n° 04/Dicembre 2016 con il titolo «Globalizzazione e Offshoring: quali potenziali effetti su occupazione e salari? (ultima parte)»

12 November 2016

Globalizzazione e Offshoring: quali sono i potenziali effetti su occupazione e salari? (terza parte)

Premessa
Durante la mia permanenza in Inghilterra, presso la prestigiosa University of Essex, ho avuto l’opportunità di realizzare alcuni lavori di approfondimento su tematiche di economia internazionale di forte attualità. Nello specifico, si tratta di argomenti che, ogni anno, emergono con prepotenza quasi a voler ricordare che nulla è stato fatto per risolvere le questioni o, in alternativa, che non si è ancora trovata alcuna soluzione a problematiche che interessano da vicino, direttamente o indirettamente, sia i Paesi in via di sviluppo, sia quelli sviluppati. Uno dei temi sui quali ho voluto concentrare l’attenzione è quello della cosiddetta “globalizzazione”, vista, da alcuni, come la causa di tutti i mali dell’economia e, da altri, come la principale imputata nel processo contro la persistente crisi economica. Ovviamente, è necessario sempre tenere a mente che ciò che sembra, non sempre coincide con la realtà. Da qui la crescente curiosità di indagare a fondo eventuali relazioni tra globalizzazione e politiche di offshoring per verificare, sotto il profilo teorico, gli effetti su occupazione e salari. Quando si affrontano tematiche di questo tenore, la speranza è quella di dar vita ad un acceso dibattito. Pertanto, eventuali opinioni in disaccordo non potranno altro che dimostrare di aver centrato l’obiettivo.

Abstract
La teoria del commercio internazionale suggerisce che quando un Paese trasferisce parte della sua produzione all’estero, l’impatto sui lavoratori in quel Paese, nel lungo periodo, può essere positivo o negativo. Questo studio analizza, teoricamente, le conseguenze occupazionali e salariali nei paesi sviluppati indotti dalle politiche di delocalizzazione adottate negli ultimi trent’anni. Il principale obiettivo è quello di verificare se il processo di globalizzazione possa considerarsi la principale causa della disoccupazione o, in alternativa, se abbia giocato un ruolo chiave nella crisi economica che persiste nei paesi occidentali.

Sommario
1. Introduzione - 2. Parola d’ordine: globalizzazione - 3. Offshoring: esportare occupazione per ridurre i salari interni? - 4. Conclusioni.

(segue)

3. Offshoring: esportare occupazione per ridurre i salari interni?
Da un punto di vista generale, la globalizzazione può avere un impatto positivo sugli scambi grazie ad un maggiore assortimento di merci/prodotti (variety of goods) oltre, ovviamente, a nuove opportunità di business. Una di queste è rappresentata dall’offshoring, che consente alle imprese di spostare parte della loro attività all’estero in quanto più conveniente in termini di costi di produzione. In particolare, i paesi poveri hanno un vantaggio comparativo nel mercato del lavoro ed il loro settore industriale è prevalentemente labour intensive, ossia caratterizzato da un massiccio utilizzo di manodopera. Alla luce questa breve premessa, nei paesi industrializzati l’offshoring interessa da vicino, in linea di principio, i lavoratori non qualificati (unskilled workers) a causa dei salari più bassi esistenti nei paesi meno sviluppati. E’ questa una delle ragioni per cui si ritiene che l’offshoring generi effetti negativi sull’occupazione, mentre, in realtà, potrebbe anche impattare positivamente nei settori che usano forza lavoro qualificata. In altre parole, per valutarne la bontà, si dovrebbe considerare l’effetto netto sul livello occupazionale. Sotto il profilo teorico, appare ovvio come il trasferimento di un processo produttivo in un paese straniero provochi un aumento della disoccupazione. Questo risultato, però, deve essere analizzato sia nel breve periodo, sia nel lungo. Nel primo caso, quando un lavoratore perde il lavoro, non è detto che ne trovi immediatamente un altro, mentre nell’altra ipotesi potrebbe essere assunto in un settore in espansione. Da un’altra angolazione, un paese che trasferisce parzialmente la produzione all’estero può concentrarsi su quella parte che mantiene all’interno dei confini. Quindi, la specializzazione può portare effetti positivi in termini sia di  produttività del lavoro, sia di efficienza produttiva. Una maggiore produttività abbatte i costi unitari di produzione e, se le imprese riducono anche i prezzi, è possibile incrementare le vendite e, a cascata, anche l’occupazione. In definitiva, l’offshoring genera effetti diretti e indiretti Gli effetti diretti portano a:
a) ridurre l’occupazione per quella parte di produzione trasferita all’estero;
b) aumentare l’occupazione per quella parte mantenuta sul mercato domestico.
Gli effetti indiretti consistono:
a) nella fornitura di beni/servizi a costi più bassi rispetto a quelli di altri settori, con conseguente espansione del loro business e aumento di occupazione;
b)  nella riduzione dei prezzi, consentendo di incrementare i consumi e, conseguentemente, la domanda interna, la produzione e l’occupazione.
Quindi, l’impatto finale sull’occupazione dipende sia dal cosiddetto “effetto sostituzione” (generato dall’allocazione di forza lavoro), sia dall’altrettanto noto “effetto reddito” (indotto da economie di scala). Una citazione del Premio Nobel americano Paul KRUGMAN può aiutare a comprendere meglio l’idea generale: «Dal 1970 a oggi la produzione nell’industria manifatturiera è grosso modo raddoppiata; ma, a causa dell’aumento di produttività, l’occupazione è leggermente diminuita. Anche nel campo della fornitura di servizi la produzione è quasi raddoppiata, ma la produttività è aumentata di poco, mentre la forza lavoro impiegata è cresciuta del 90%. Globalmente nell’economia americana si sono creati più di 45 milioni di posti di lavoro» (“The Accidental Theorist”, W. W. Norton & Company Inc., 1998). L’economista tedesco Holger GÖRG (“Globalization, Offshoring and Jobs”, International Labour Organization/World Trade Organization, 2011), prendendo in considerazione i risultati di diverse ricerche, ha confermato il punto di vista teorico. In altri termini, nel breve periodo l’offshoring provoca un aumento della disoccupazione a causa del trasferimento all’estero della produzione di quei settori che utilizzano intensamente manodopera, mentre nel lungo periodo la disoccupazione si contrae in quanto i lavoratori hanno la possibilità di essere riassunti grazie a nuove opportunità lavorative. Inoltre, se si verificano anche gli effetti indiretti l’occupazione può crescere ulteriormente. Gli studiosi Mary AMITI and Shang-Jin WEI (“Fear of Service Outsourcing: Is it Justified?”, Economic Policy, Vol. 20, n° 42, 2006) hanno, però, sostenuto la necessità che un’analisi empirica debba prendere in considerazione non solo un periodo di tempo più esteso, ma anche diversi settori produttivi (sia in espansione, sia in recessione), altrimenti il rischio è quello di non trovare robusti supporti a sostegno della tesi sugli effetti generati dall’offshoring. In ogni caso, GÖRG ha preso in considerazione diversi lavori pubblicati sull’argomento ed i risultati empirici sembrano confermare i positivi effetti in termini occupazionali dell’offshoring, anche se la ricerca si è limitata ad un orizzonte temporale ristretto. Per questo motivo, non sempre è stato possibile esaminare gli effetti nel breve e nel lungo periodo. In aggiunta, nel corso degli anni, la tecnologia ed i trasporti sono cambiati sensibilmente, al pari delle preferenze dei consumatori. Anche queste variabili, possono avere riflessi positivi o di segno contrario sull’occupazione oltre ad essere utili per spiegare potenziali collegamenti con l’offshoring. Infatti, se in passato la maggior parte dei servizi non erano oggetto di scambio, oggi possono essere commercializzati grazie alla tecnologia. Analizzando l’impatto dei servizi sull’occupazione, Rosario CRINÒ (“Employment Effects of Service Offshoring: Evidence from Matched Firms”, Economic Letters, Vol. 117,  n° 2, 2010) ha sottolineato come gli effetti sull’occupazione per i lavoratori non qualificati non siano rilevanti, mentre sono positivi per quelli altamente qualificati, grazie alla loro specializzazione. Considerando, invece, l’impatto della tecnologia, Ann HARRISON e Margaret McMILLAN (“Offshoring Jobs? Multinationals and U.S. Manufacturing Employment”, The Review of Economics and Statistics, Vol. 93,  n° 3, 2011) hanno messo in evidenza come la riduzione dell’occupazione nelle multinazionali americane sia stata causata dalla tecnologia, che ha sostituito i lavoratori, e non dall’offshoring. Per valutare l’impatto dell’offshoring su occupazione e salari nel settore manifatturiero, i due ricercatori hanno scoperto che i lavoratori:
a) nei paesi a basso reddito sono un sostituto degli impiegati americani. Quindi, se l’occupazione nei paesi in via di sviluppo aumenta, i salari negli Stati Uniti si riducono al pari di quanto avviene per l’occupazione;
b) nei paesi ad alto reddito hanno, al contrario, un effetto positivo sull’occupazione americana. Quindi, se i salari in questi paesi crescono, l’occupazione americana aumenta.
Inoltre, Robert C. FEENSTRA e Gordon H. HANSON (“The impact of Outsourcing and High Technology Capital on Wages: Estimates for the United States 1979-1990”, Quarterly Journal of Economics, 1999) hanno esplorato l’impatto dell’offshoring e della tecnologia sui salari americani. Poiché la tecnologia incide sui prezzi di produzione, una riduzione dell’occupazione può dipendere sia dallo spostamento della produzione all’estero, sia dalla sostituzione dei lavoratori con la tecnologia. Lo studio mostra che sia la tecnologia, sia l’offshoring incidono sui salari positivamente, anche se il contributo fornito dalla tecnologia è superiore a quello dell’offshoring. E’ da precisare che i due ricercatori hanno preso in considerazione la tecnologia in termini di spesa, anche se questa unità di misura può essere non appropriata. Infatti, una spesa in tecnologia più alta significa che il costo è aumentato in termini assoluti, ma non prova che il livello della tecnologia è migliorato. Altri autori (nello specifico, David HUMMELS, Rasmus JØRGENSEN, Jacob MUNCH and Chong XIANG, “The Wage Effects of Offshoring: Evidence from Danish Market Worker-Firm Data”, Working Paper, 2012), utilizzando informazioni del mercato danese, hanno confrontato gli effetti sui salari indotti dall’offshoring e dalle esportazioni. In particolare, operando una divisione tra lavoratori qualificati e non qualificati, gli studiosi hanno evidenziato che:
a)  l’export porta ad un incremento occupazione per entrambe le categorie di lavoratori;
b)  l’offshoring genera una riduzione dei lavoratori non qualificati e un incremento di quelli qualificati.
Riepilogando quanto finora esposto emerge che gli studiosi tendono spesso a considerare l’offshoring solo in termini di posti di lavoro persi o, alternativamente, a prendere in considerazione gli effetti negativi. Essi hanno associato l’offshoring al tasso di disoccupazione nei settori che utilizzano lavoratori non qualificati, esaminando come l’impatto possa influenzare produttività, produzione, costi, prezzi, consumo e, in ultima analisi, salari. Tuttavia, i lavori oggetto di interesse in questa ricerca hanno tralasciato alcune variabili economiche che possono influenzare i salari:
a)   profitti;
b)   istruzione;
c)    immigrazione;
d)   politiche governative;
che, mutatis mutandis, insieme agli effetti dell’offshoring possono bilanciare le conseguenze negative sui salari o contribuire a peggiorarle. In primo luogo, infatti, l’offshoring consente alle aziende nostrane di ridurre il costo del lavoro non qualificato e aumentare la produttività di quello qualificato. Grazie a questa combinazione, le imprese possono conseguire profitti più elevati, che possono essere alternativamente usati dagli imprenditori per:
a) remunerare gli azionisti, senza alcun effetto diretto su occupazione e salari;
b) aumentare l’occupazione, al fine di incrementare la produzione;
c) erogare un salario premio ai dipendenti per effetto dell’aumentata produttività, con effetti positivi sui salari;
d) mixare tra loro le diverse alternative.
In definitiva, solamente gli ultimi due casi possono registrare benefici sui salari. In secondo luogo, la teoria economica tende a collegare l’elevato livello di istruzione con analoghe abilità e, conseguentemente, un minore livello di istruzione con una bassa competenza. Alla luce di ciò, il livello di istruzione, paradossalmente, potrebbe avere un impatto:
a) negativo sui salari dei lavoratori qualificati, poiché l’offerta di lavoro specializzato aumenta. In questa circostanza l’occupazione potrebbe ridursi;
b) positivo sui salari dei lavoratori non qualificati. Infatti, se i lavoratori qualificati sostituiscono quelli non qualificati nelle produzioni che richiedono basse abilità, la produttività aumenta al pari dei salari. In questo caso, la disoccupazione potrebbe peggiorare. Si tratta del cosiddetto “paradosso dell’istruzione”, che si verifica quando lavoratori qualificati sono remunerati con salari più bassi.
In terzo luogo, sotto il profilo teorico, l’immigrazione dai paesi in via di sviluppo è associata a lavoratori non qualificati, mentre quella originata dai paesi industrializzati a lavoratori altamente qualificati. Quindi, se l’apertura al commercio internazionale significa assenza o minori barriere nel mercato del lavoro, ciò potrebbe portare ad una riduzione dei salari in quanto l’offerta di lavoro per la manodopera non specializzata aumenta, spingendo verso il basso i salari. Infine, ma non per questo meno importante, le politiche governative possono tamponare gli effetti negativi dell’offshoring sul mercato del lavoro, con riferimento, a titolo esemplificativo e non esaustivo, a:
a)  profitti, aumentando la tassazione di quelli non reinvestiti nell’occupazione;
b)  istruzione, usando la politica fiscale per equilibrare l’offerta di lavoro non qualificata e qualificata;
c)  immigrazione, riducendo i permessi lavorativi per i migranti provenienti dai paesi in via di sviluppo.

(continua)

AuthorEmanuele COSTA
Published byBacherontius n° 03/Ottobre 2016 con il titolo «Globalizzazione: quali effetti su occupazione e salari? (terza parte)»

24 October 2016

Meritocrazia? No grazie, siamo in Italia

Tra le eccellenze, ormai sempre meno, che contraddistinguono il Bel Paese dal resto del mondo, la meritocrazia non ne ha mai fatto parte. Al pari della disoccupazione giovanile, essa rappresenta una piaga che grava sull’intera società. Ad onor del vero, i due fenomeni viaggiano di pari passo. E non si tratta di una coincidenza! In un sistema economico sempre più in crisi, le risorse umane (se valorizzate) si configurano come uno degli investimenti con il più alto tasso di rendimento e non, come si tende a far credere, una sterile voce di costo che grava sui bilanci delle imprese. Eppure in molti sostengono questa seconda tesi. Le ragioni possono ascriversi alle deludenti performance del “Made in Italy” in molti settori trainanti il Prodotto Interno Lordo. Se un’azienda incontra difficoltà a sopravvivere sul mercato forse è perché i prodotti non hanno le caratteristiche, in termini di rapporto qualità/prezzo, per reggere il confronto internazionale o soddisfare le esigenze dei consumatori. Oppure il management non è riuscito a formulare appropriate strategie di marketing o, peggio ancora, è remunerato profumatamente per politiche di impresa non di successo. Sicuramente non perché il costo del lavoro è elevato! Se così fosse, infatti, andrebbe chiarito perché i dipendenti incidono negativamente sui risultati aziendali mentre i manager no. Si tratta pur sempre di stipendi, variano solo le persone che li percepiscono. A conti fatti, però, a farne le spese sono sempre i primi, colpevoli di costare troppo. Da qui l’esercito di disoccupati che, quotidianamente, arruola nuove leve. Il problema, quindi, va ricercato altrove. Non è certo rappresentato dalla massa di coloro che tentano, senza successo, di inserirsi nel mercato del lavoro, bensì è costituito da quelli che hanno avuto l’opportunità, non dipendente dal merito, di trovare un impiego grazie a meccanismi che ruotano intorno al fenomeno della raccomandazione. Infatti, se la questione fosse lo scarso appeal della produzione domestica ciò è da imputare ai lavoratori che contribuiscono a quel risultato e non certo a quelli che non svolgono un ruolo attivo nel processo di produzione, ossia i disoccupati. Se il mercato del lavoro operasse nel rispetto di parametri meritori, i migliori non avrebbero difficoltà a trovare un’occupazione perché si instaurerebbe una sana competizione tra imprese (non necessariamente sul fronte retributivo) orientata a fare incetta di persone di valore. Ma i cosiddetti “talenti” hanno qualità scomode: pensano e non solo eseguono. Ed è questa la qualità che mina alla base la rete dalla quale nasce e si nutre la raccomandazione. Se poi si aggiunge che i veri talenti sono anche indipendenti intellettualmente, nel senso che non hanno bisogno di sponsor per vedersi aprire la porta del mercato del lavoro, emerge da sola la ragione per cui l’unica alternativa alla disoccupazione giovanile in Italia sia quella di andare a rinforzare le fila dei cervelli in fuga.

AuthorEmanuele COSTA
Published byIl Nuovo Picchio n° o4/Aprile 2016 con il titolo «Meritocrazia? No grazie, siamo in Italia»

15 September 2016

Economia immaginaria: utopia o triste realtà (ultima parte)

La crisi economica degli Anni Trenta ha lasciato ferite nel tessuto sociale che il trascorrere del tempo non ha completamente rimarginato, anche se le cronache dell’epoca e le sue immagini appartengono alla storia. Le ripercussioni negative si erano estese al decennio successivo, con effetti che avevano colpito, tra gli altri, domanda, produzione, occupazione e redditi. Questo il tenore delle premesse, l’epilogo devastante e la violenza scatenata nell’intermezzo è riprodotta in fotogrammi indelebili non solo sui libri di storia, ma anche nella memoria umana. A quei tempi, la generazione dei giovani ha pagato le peggiori conseguenze, non solo in termini di vite umane. Eppure, negli anni immediatamente precedenti la Grande Depressione, lo slogan in voga negli States era eloquente: “L’economia è il nostro destino”. Oggi, al contrario, quella che la dottrina definisce “smart generation” non solo ignora ragioni e motivazioni di un triste trascorso, ma sottovaluta la pericolosità dei potenziali effetti che le circostanze attuali potranno avere sul loro futuro. E ciò supporta la tesi che di “smart” c’è poco o niente, se non quel dispositivo che quotidianamente alberga nelle loro mani al posto dei libri di scuola. Chissà se dietro quella innocente maschera di spensieratezza si nasconde un altro volto, cosciente di una prospettiva non così rosea come delineata dalla propaganda governativa. Infatti, gli impatti economici sono sempre il frutto di (in)decisioni politiche. Il comportamento del mercato ne è solo una reazione istintiva, dettata da un ipotetico pensiero razionale degli operatori economici. E poiché l’agire umano ha spesso secondi fini non dichiarati, il dubbio sui reali propositi da conseguire è più che mai effettivo! Pertanto, se di fronte alla piaga dilagante della disoccupazione giovanile qualsiasi provvedimento si allontana dal target ufficiale è normale chiedersi se l’obiettivo (non dichiarato) fosse quello di farla crescere anziché ridurla. Un interrogativo ispirato dall’immaginazione, ma che trova risposte concrete nella situazione di fatto. D’altronde, è sufficiente mettere sul piatto della bilancia i vantaggi che ne possono derivare per comprendere verso quale direzione convenga orientare le politiche del lavoro. Uno di questi potrebbe essere quello della progressiva riduzione dei salari in modo da poter gradualmente sostituire la forza lavoro esistente con nuovi occupati. La riduzione delle retribuzioni potrebbe, a sua volta, innescare una corsa al ribasso sia dei costi di produzione, sia dei prezzi di vendita. In quest’ottica, i benefici di lungo termine potrebbero risolvere l’attuale problema. Con salari inferiori a quelli attuali, la produzione delocalizzata potrebbe rientrare nei confini di origine, con la benedizione di coloro che si troveranno alla guida del Paese in quel momento, che potranno fregiarsi del titolo di essere riusciti a ridurre la disoccupazione giovanile. Ma a quale prezzo nessuno lo dirà mai!

AuthorEmanuele COSTA
Published byIl Nuovo Picchio n° 3/Marzo 2016 con il titolo «Economia immaginaria: utopia o triste realtà (ultima parte)»

25 August 2016

Globalizzazione e Offshoring: quali sono i potenziali effetti su occupazione e salari? (seconda parte)

Premessa
Durante la mia permanenza in Inghilterra, presso la prestigiosa University of Essex, ho avuto l’opportunità di realizzare alcuni lavori di approfondimento su tematiche di economia internazionale di forte attualità. Nello specifico, si tratta di argomenti che, ogni anno, emergono con prepotenza quasi a voler ricordare che nulla è stato fatto per risolvere le questioni o, in alternativa, che non si è ancora trovata alcuna soluzione a problematiche che interessano da vicino, direttamente o indirettamente, sia i Paesi in via di sviluppo, sia quelli sviluppati. Uno dei temi sui quali ho voluto concentrare l’attenzione è quello della cosiddetta “globalizzazione”, vista, da alcuni, come la causa di tutti i mali dell’economia e, da altri, come la principale imputata nel processo contro la persistente crisi economica. Ovviamente, è necessario sempre tenere a mente che ciò che sembra, non sempre coincide con la realtà. Da qui la crescente curiosità di indagare a fondo eventuali relazioni tra globalizzazione e politiche di offshoring per verificare, sotto il profilo teorico, gli effetti su occupazione e salari. Quando si affrontano tematiche di questo tenore, la speranza è quella di dar vita ad un acceso dibattito. Pertanto, eventuali opinioni in disaccordo non potranno altro che dimostrare di aver centrato l’obiettivo.

Abstract
La teoria del commercio internazionale suggerisce che quando un Paese trasferisce parte della sua produzione all’estero, l’impatto sui lavoratori in quel Paese, nel lungo periodo, può essere positivo o negativo. Questo studio analizza, teoricamente, le conseguenze occupazionali e salariali nei paesi sviluppati indotti dalle politiche di delocalizzazione adottate negli ultimi trent’anni. Il principale obiettivo è quello di verificare se il processo di globalizzazione possa considerarsi la principale causa della disoccupazione o, in alternativa, se abbia giocato un ruolo chiave nella crisi economica che persiste nei paesi occidentali.

Sommario
1. Introduzione - 2. Parola d’ordine: globalizzazione - 3. Offshoring: esportare occupazione per ridurre i salari interni? - 4. Conclusioni - 5. Bibliografia.

(segue)

2. Parola d’ordine: globalizzazione
Nel corso degli anni, gli economisti hanno sottovalutato l’idea che ci fossero dei collegamenti tra commercio internazionale e occupazione. La teoria economica non ha messo in evidenza effetti negativi nel mercato del lavoro. Infatti, essa si basa, generalmente, su ipotesi che hanno la prospettiva di illustrare gli impatti positivi di un modello economico e queste congetture mirano, quindi, ad evitare di prendere in considerazione potenziali effetti avversi. Ad oggi, il cosiddetto modello HECHSCHER-OHLIN (“The Effects of Foreign Trade on the Distribution of Income”, Economisk Tidskrift, Volume 21, 1919; “Interregional and International Trade”, Harvard University Press, 1933) è sempre considerato un fondamentale punto di partenza per ogni analisi in materia di commercio internazionale e sugli effetti che ne derivano. L’idea alla base del modello è che il mercato del lavoro operi in regime di concorrenza perfetta e, conseguentemente, la piena occupazione è garantita. In altri termini, i settori produttivi in espansione assorbono i lavoratori licenziati da quelli in crisi. Inoltre, il modello in questione non prende in considerazione né gli effetti di breve periodo, né quelli di più ampio respiro, in quanto il processo di aggiustamento del mercato verso l’equilibrio è istantaneo. In sintesi, la riallocazione della forza lavoro è l’unico impatto che incide sul mercato del lavoro. In ogni caso, questa ipotesi presenta alcuni difetti poiché i lavoratori non sono in possesso delle medesime attitudini. Infatti, essi hanno differenti capacità e questo può richiedere tempo prima di trovare una nuova occupazione. In alcuni loro paper, gli studiosi DAVIDSON e MATUSZ (“International Trade and Labor Markets: Theory, Evidence and Policy Implication”, Upjohn Institute for Employment Research, 2004; “Trade and Turnover: Theory and Evidence”, Review of International Economics, Volume 13, n° 5, 2005; “Trade Liberalization and Compensation”, International Economic Review, Volume 47, n° 3, 2006), ipotizzando un mercato del lavoro in regime di concorrenza imperfetta, hanno dimostrato l’esistenza di un legame tra commercio internazionale e occupazione, nel senso che l’aumento degli scambi commerciali può avere riflessi sul tasso di disoccupazione. Prima di approfondire la questione, sono necessari alcuni richiami storici. Al termine della Guerra Fredda, la parola d’ordine è sembrata essere solo una: globalizzazione. Durante gli Anni ’90, il raggio di azione dell’economia mondiale si è gradualmente allungato e l’assenza di un collegamento tra commercio internazionale e occupazione ha iniziato a perdere consensi. In precedenza, i paesi sviluppati commerciavano con altre nazioni industrializzate e la produzione era, generalmente, consumata internamente o esportata. Per questo, essi avevano un sistema economico simile, non c’erano sensibili differenze salariali e le imprese nostrane non reputavano così redditizio trasferire la loro produzione in altri paesi occidentali. Da quando le barriere ideologiche sono cadute, i paesi in via di sviluppo hanno iniziato a competere con il mondo industrializzato. Grazie a salari più bassi, essi hanno calamitato ingenti investimenti. In conseguenza di costi commerciali ridotti, le imprese occidentali hanno iniziato a spostare parte della loro produzione all’estero. La concorrenza su scala planetaria ha portato sempre più imprenditori a individuare nuove opportunità nei mercati di tutto il mondo, non solo per conseguire profitti più elevati, ma soprattutto per sopravvivere nel mercato globale. Nei paesi sviluppati comunemente si ritiene che uno degli effetti negativi generati dalla globalizzazione sia rappresentato dalla disoccupazione, anche se studi empirici sembrano dimostrare l’esatto contrario. Nella realtà il mercato del lavoro opera in regime di concorrenza imperfetta e, quindi, un settore produttivo in recessione può generare, nel breve periodo, un aumento della disoccupazione. Infatti, i lavoratori disoccupati possono avere difficoltà a trovare un nuovo lavoro a causa, ad esempio, della loro età, del loro livello di istruzione ed esperienza. Per contro, nel lungo periodo, il processo di aggiustamento del mercato può portare all’incremento dell’occupazione grazie sia a politiche imprenditoriali, sia governative. DUTT et al. (“International Trade and Unemployment: Theory and Cross-national Evidence”, Journal of International Economics, Volume 78, n° 1, 2009) hanno empiricamente dimostrato che esiste un collegamento tra apertura del mercato all’esterno e disoccupazione. Gli studiosi hanno costruito un modello econometrico prendendo in considerazione variabili dummy per confermare l’apertura commerciale o meno di un paese con l’esterno. In aggiunta, il modello proposto ha incluso diversi periodi di analisi per verificare gli effetti sia di breve periodo, sia di lungo. I risultati ottenuti mettono in evidenza un aumento della disoccupazione nel breve periodo e una diminuzione nel lungo termine. Quindi, gli autori sostengono che l’apertura di un paese al commercio internazionale porta alla riduzione della disoccupazione. Il modello presentato, però, contiene alcuni limiti:
a)   in primo luogo, esso prende in considerazione diversi paesi, dividendoli in due gruppi a seconda del loro grado di apertura verso l’esterno. Quindi, non è chiaro con quale criterio la disoccupazione possa dipendere dal volume di scambi con l’estero, precisando che è anche difficile costruire un indice appropriato per misurarlo;
b)  in secondo luogo, non ci sono prove a sostegno che la riduzione della disoccupazione possa essere associata al commercio internazionale. Infatti, gli effetti positivi in termini occupazionali possono essere imputati ad adeguate politiche governative come, ad esempio, stimoli agli investimenti/consumo, assunzioni di personale nel Settore pubblico, limitazione dei flussi di immigrazione.
Parlando di globalizzazione e dei suoi effetti sull’occupazione, GÖRG (“Globalization, Offshoring and Jobs”, International Labour Organization/World Trade Organization, 2011) ha elencato una serie di ricerche empiriche riferite ai paesi sviluppati. Alcuni di questi studi hanno messo in evidenza risultati validi sia nel breve periodo, sia nel lungo. Nello specifico, ad eccezione di qualche caso isolato, come ad esempio IBSEN et al. (“Employment Growth and International Trade: A Small Open Economy Perspective”, Aarhus School of Business/Aarhus University, Working Paper n° 09-9, 2009) per la Danimarca, è emerso che il Nord America e l’Europa hanno fornito prove simili. I risultati empirici hanno confermato l’ipotesi che, nel breve periodo, un paese può registrare una riduzione del tasso di occupazione a causa del processo di aggiustamento del mercato, mentre nel lungo periodo (tre/cinque anni) alcuni lavoratori hanno la possibilità di trovare una nuova occupazione (sul tema si può consultare anche KLETZER, “Job Loss from Imports: Measuring the Costs”, Institute for International Economics, 2001). Illustrando i risultati forniti da altre ricerche, GÖRG ha argomentato che:
a) i settori che importano registrano un incremento della disoccupazione, perché distruggono posti di lavoro o, alternativamente, bassi tassi di crescita dell’occupazione;
b)  i settori che esportano, al contrario, generano un aumento del livello occupazionale, in quanto creano nuove opportunità o, alternativamente, alti tassi di crescita dell’occupazione.
In sintesi, considerando gli effetti sulla disoccupazione da parte delle importazioni e/o esportazioni sulla disoccupazione, non è così chiaro se essi dipendono unicamente dal fenomeno della globalizzazione oppure anche da altre politiche commerciali. In aggiunta, ad esempio, un elevato volume di scambi può essere indotto da maggiori vendite all’estero a causa di prodotti di successo, che richiedono, a loro volta, maggiori importazioni di materie prime. Questo volume di scambio potrebbe essere imputato a esportazioni verso alcuni paesi e importazioni da un limitato numero di altri paesi. Ciò significa che, per questi settori, potrebbe essere una questione di efficienza e non di globalizzazione. In conclusione, la relazione tra globalizzazione e occupazione è un problema serio. La teoria economica afferma che l’apertura di un paese al commercio internazione può avere considerevoli benefici in ogni paese per effetto di una vasta gamma di prodotti disponibili sul mercato. Tuttavia, anche l’occupazione è una questione di vitale importanza e, secondo KRUGMAN (“The Accidental Theorist”, W.W. Norton & Company Inc., 1998) il lavoro non deve essere considerato alla stregua di una merce, perché, grazie ad un più ampio assortimento di prodotti, un mercante può vendere diversi beni, mentre il lavoratore ha generalmente una sola occupazione. Per questi motivi, lasciare una merce invenduta potrebbe non essere profittevole per il negoziante, mentre lasciare il lavoratore senza una occupazione è una tragedia. Se si considera la globalizzazione sotto il profilo commerciale, diversi autori hanno dimostrato che le importazioni incidono negativamente sul tasso di occupazione, mentre le esportazioni agiscono in senso opposto ed il commercio internazionale influenza il livello occupazionale in due diversi modi:
a) il primo, nel breve periodo, attraverso la perdita di posti di lavoro;
b) il secondo, nel lungo periodo, attraverso la creazione di nuove opportunità lavorative.
(continua)

AuthorEmanuele COSTA
Published byBacherontius n° o2/Luglio 2016 con il titolo «Globalizzazione: quali effetti su occupazione e salari? (seconda parte)»

14 July 2016

Economia immaginaria: utopia o triste realtà? (prima parte)

Non passa giorno senza un bombardamento a tappeto, da parte dei media (social o meno), sullo stato in cui versa la situazione economico/finanziaria del Paese. Ovviamente, per la componente governativa, tutto sta procedendo secondo i piani, ossia al meglio. I provvedimenti di matrice maggioritaria stanno producendo quegli effetti positivi per i quali sono stati faticosamente approvati. In altre parole, non solo si incomincia a scorgere la luce in fondo al tunnel, anzi l'Italia ne è già fuori e si sta incamminando, anche se lentamente, verso la ripresa economica. E' solo una questione di tempo, si tratta di avere ancora un po' di pazienza. Peccato che, come spesso accade, non sia fornita anche la dimensione temporale necessaria affinché quella pazienza diventi, finalmente, un brutto ricordo. Per i detrattori, al contrario, le norme emanate in materia economica non si stanno convertendo in benefici tangibili. I sospirati miglioramenti della congiuntura tardano a verificarsi o, nel caso di un leggero segnale di ripresa, si tratta solo di un cosiddetto "fuoco di paglia" destinato a spegnersi al primo alito di vento. Chi ha ragione? E' nella normalità delle cose che ogni colore politico cerchi di tirare l'acqua al proprio mulino, in modo da tentare di amicarsi le simpatie del Cittadino, visto non come soggetto con bisogni da soddisfare, ma come individuo in grado di esprimere una preferenza in prospettiva della prossima consultazione elettorale. E' il classico gioco delle parti. Se si invertono i ruoli, il risultato non cambia! E' giunta l'ora di prendere coscienza che ogni decisione governativa, qualunque sia la tessera politica di appartenenza, sembra sempre più fondata sul principio della "eterogenesi dei fini", coniata dal filosofo tedesco Wilhelm Maximilian WUNDT per definire "conseguenze non intenzionali di azioni intenzionali". In altre parole, si prendono decisioni con scopi ben precisi che si risolvono in tutt'altro, spesso nel loro contrario. Per uscire da questo meccanismo, può essere utile stimolare la propria immaginazione e porsi qualche domanda, anche provocatoria, fuori da qualsiasi schema stereotipato. Potrebbe essere un esercizio interessante, soprattutto con la prospettiva di non illudere quella massa di giovani che, in un prossimo futuro, potrebbero trovarsi a ciondolare come anime disperate in mezzo ad una strada, in cerca di quell'Eldorado rappresentato da un posto di lavoro. Ad oggi, l'unica speranza per loro può sintetizzarsi nell'affermazione di Herbert HOOVER (trentunesimo Presidente degli Stati Uniti d'America): «Beati i giovani perché erediteranno il debito pubblico». E non è un caso se questa citazione sia stata formulata da uno statista che si è trovato ad affrontare la fase più acuta della Grande Depressione degli Anni Trenta. Un motivo ci sarà stato! - (continua).

AuthorEmanuele COSTA
Published byIl Nuovo Picchio n° 2/Febbraio 2016 con il titolo «Economia immaginaria: utopia o triste realtà (prima parte)»

19 April 2016

Globalizzazione e Offshoring: quali sono i potenziali effetti su occupazione e salari? (prima parte)

Premessa
Durante la mia permanenza in Inghilterra, presso la prestigiosa University of Essex, ho avuto l’opportunità di realizzare alcuni lavori di approfondimento su tematiche di economia internazionale di forte attualità. Nello specifico, si tratta di argomenti che, ogni anno, emergono con prepotenza quasi a voler ricordare che nulla è stato fatto per risolvere le questioni o, in alternativa, che non si è ancora trovata alcuna soluzione a problematiche che interessano da vicino, direttamente o indirettamente, sia i Paesi in via di sviluppo, sia quelli sviluppati. Uno dei temi sui quali ho voluto concentrare l’attenzione è quello della cosiddetta “globalizzazione”, vista, da alcuni, come la causa di tutti i mali dell’economia e, da altri, come la principale imputata nel processo contro la persistente crisi economica. Ovviamente, è necessario sempre tenere a mente che ciò che sembra, non sempre coincide con la realtà. Da qui la crescente curiosità di indagare a fondo eventuali relazioni tra globalizzazione e politiche di offshoring per verificare, sotto il profilo teorico, gli effetti su occupazione e salari. Quando si affrontano tematiche di questo tenore, la speranza è quella di dar vita ad un acceso dibattito. Pertanto, eventuali opinioni in disaccordo non potranno altro che dimostrare di aver centrato l’obiettivo.

Abstract
La teoria del commercio internazionale suggerisce che quando un Paese trasferisce parte della sua produzione all’estero, l’impatto sui lavoratori in quel Paese, nel lungo periodo, può essere positivo o negativo. Questo studio analizza, teoricamente, le conseguenze occupazionali e salariali nei paesi sviluppati indotti dalle politiche di delocalizzazione adottate negli ultimi trent’anni. Il principale obiettivo è quello di verificare se il processo di globalizzazione possa considerarsi la principale causa della disoccupazione o, in alternativa, se abbia giocato un ruolo chiave nella crisi economica che persiste nei paesi occidentali.

Sommario
1. Introduzione - 2. Parola d’ordine: globalizzazione - 3. Offshoring: esportare occupazione per ridurre i salari interni? - 4. Conclusioni - 5. Bibliografia.

1. Introduzione
Gli effetti prodotti dalla crisi economica del 2007 si possono considerare più catastrofici di quelli generati, nel 1930, dalla cosiddetta “Grande Depressione”? L’attuale e persistente crisi economica sembra avere origini antiche o, meglio, più di un padre. Per queste ragioni non è facile fare un confronto tra i due fenomeni perché, pur essendo simili nominalmente, in realtà differiscono sotto molti aspetti. Nello specifico, nel 1930 lo scenario era profondamente diverso, nel senso che la crisi economica aveva interessato un ristretto numero di Paesi (in modo particolare Stati Uniti e nazioni europee) e traeva origine dal settore industriale. Forse, è per queste ragioni che oggi le persone preferiscono parlare di “crisi globale” e non semplicemente di “crisi economica”. Infatti, nei paesi occidentali, lo scenario degli Anni Trenta si colloca dopo la Prima Guerra Mondiale e un periodo relativamente breve di espansione economica, mentre oggi, nei Paesi industrializzati, il contesto nasce da un periodo di circa sessant’anni di pace, durante il quale i Paesi sviluppati hanno avuto la possibilità di sfruttare varie opportunità generate da una graduale integrazione economica, costruendo, contestualmente, le fondamenta della attuale fase recessiva. Quindi, il problema sembra avere un solo perdente: il mondo industrializzato, che, per decenni, ha migliorato, più o meno, il suo livello di benessere. Attualmente, i Paesi sviluppati stanno ancora lottando per uscire dalla recessione, mentre le economie meno sviluppate si trovano a fare i conti con una crescita economica sostenuta. Quindi, ha ancora senso parlare di “crisi globale”? In genere, le persone tendono a considerare un fenomeno negativo solo quando si verifica nei Paesi occidentali. Stati Uniti ed Europa sono investiti da una crescita economica debole o negativa e, conseguentemente, l’opinione pubblica si (auto)convince di trovarsi in recessione. Al contrario, Cina e India (che, tra l’altro, sono anche le nazioni più popolate del pianeta) stanno registrando alti tassi di crescita economica. In altre parole, all’interno di questi due paesi la “crisi globale” non esiste o, nella peggiore delle ipotesi, si tratta di una crescita economica più debole rispetto agli anni precedenti. Si tratta, però, pur sempre di crescita e non di recessione! Analizzando il contesto storico, i paesi sviluppati hanno iniziato ad andare in crisi nei primi Anni Novanta, in seguito alla fine della Guerra Fredda, al collasso dell’Unione Sovietica e all’avvio del processo di “occidentalizzazione” dell’Europa Orientale. Si è trattato, in pratica, del primo passo verso la cosiddetta “europeizzazione” dell’economia o, letto in altri termini, una sorta di globalizzazione su scala europea. Quindi, alla luce di ciò, si può affermare che la fine della Guerra Fredda, con la creazione di nuove opportunità economiche, ha determinato il processo di globalizzazione? Secondo LEWIS e MOORE (“Globalization and the Cold War: the Communist Dimension”, Management & Organizational History, Volume 5, n° 1, 2010), la globalizzazione esisteva già prima della fine della Guerra Fredda ed aveva due obiettivi. Il primo, perseguito dai paesi occidentali ed era orientato al mercato. Il secondo, portato avanti dai paesi comunisti ed era orientato al collettivismo. Quindi, è chiaro che dopo la fine della Guerra Fredda c’era solo un’unica via per interpretare questo fenomeno e la caduta del Comunismo ha contribuito ad accelerare i processi di liberalizzazione, le aperture commerciali e, conseguentemente, la globalizzazione. Comunque, forse, una grande spinta verso la globalizzazione è stata data dieci anni prima, negli Anni Ottanta, grazie alla cosiddetta “reaganomics”, in altre parole alla politica economica del Presidente americano Ronald REAGAN, imperniata sullo sviluppo economico trainato dall’offerta e non dalla domanda aggregata come previsto dalle teorie economiche Keynesiane. Quindi, dopo un breve excursus sulla teoria del commercio internazionale, questo saggio si focalizzerà sulla globalizzazione e agli stretti legami con la delocalizzazione. In secondo luogo, lo studio indagherà gli effetti positivi e negativi prodotti dalle politiche di offshoring, cercando di valutare eventuali legami con i salari. (continua)

AuthorEmanuele COSTA
Published byBacherontius n° o1/Aprile 2016 con il titolo «Globalizzazione: quali effetti su occupazione e salari?»

31 March 2016

Globalizzazione e disoccupazione giovanile (terza e ultima parte)

(segue) - Per l’analisi del contesto internazionale, una ricerca empirica potrebbe prendere in considerazione dati panel relativi ad un determinato periodo storico, utilizzando come variabile economica indipendente la penetrazione di un paese (o gruppi di paesi) in Italia, dopo aver, opportunamente, ripartito il territorio in tre macro aree geografiche, ossia: Nord, Centro e Sud. La ricerca potrebbe evidenziare, ad esempio, in quale misura l’invasione dei prodotti “Made in China” sul mercato nazionale incide sul tasso di disoccupazione giovanile oppure in che modo l’appartenenza all’Unione Europea impatta sulla medesima variabile economica oggetto di studio. I risultati possono essere sorprendenti. Da un lato, potrebbe emergere come la politica di offshoring incida negativamente sul livello di disoccupazione giovanile mentre, dall’altro, la membership con l’Europa abbia riflessi positivi, in barba a chi sostiene che l’Europa e l’euro siano la “madre di tutti i mali” della situazione in cui versa l’economia nostrana. Per lo scenario domestico, invece, si potrebbero prendere in considerazione serie storiche riferite ad uno specifico periodo, in modo da poter illustrare l’impatto delle principali teorie economiche, delle credenze popolari e delle politiche pubbliche sul tasso di disoccupazione giovanile. In questo caso, le variabili economiche da considerare sono numerose. A titolo esemplificativo e non esaustivo, le relazioni inflazione/disoccupazione e prodotto interno lordo/disoccupazione forniscono due importanti informazioni per verificare la validità delle teorie economiche (Curva di Phillips e Legge di Okun), così come il fenomeno dell’immigrazione e appartenenza all’euro possono essere studiati per confermare o smentire alcune credenze popolari, mentre l’efficacia delle politiche pubbliche potrebbe essere valutata attraverso il volume degli investimenti pubblici e la pressione fiscale. Infine, un ruolo importante, potrebbe essere giocato dal livello di scolarizzazione dei giovani per verificare in che modo il loro percorso di studi possa incidere sullo status di disoccupato. In definitiva, mentre la teoria economica spesso tende a spostare l’orizzonte di analisi nel lungo periodo, i problemi economici di un paese richiedono risposte immediate o di breve periodo. Tuttavia, se la teoria economica insiste nel lasciare il mercato libero di raggiungere il suo equilibrio nel lungo periodo, allora sarebbe sufficiente attendere il trascorrere del tempo senza sforzarsi di trovare oggi politiche pubbliche per risolvere i problemi. L’importante, però, è essere consapevoli, come ha sostenuto l’economista britannico John Maynard Keynes (“A Tract on Monetary Reform”, MacMillan and Company Ltd, 1923), dell’inutilità di tale attesa, in quanto «nel lungo periodo siamo tutti morti».

AuthorEmanuele COSTA
Published byIl Nuovo Picchio n° 1/Gennaio 2016 con il titolo «Globalizzazione e disoccupazione giovanile»

15 February 2016

Globalizzazione e disoccupazione giovanile (seconda parte)

(segue) - Il successo di un Paese o di una politica sta proprio nell’avere la capacità di individuare le opportunità nascoste. La vittima “par excellence” è rappresentata da un sistema economico rigido, incapace di adattarsi al cambiamento e di operare nel mercato globale. La globalizzazione, infatti, non ha ridotto la dimensione del mercato, ma l’ha ampliata notevolmente. Le aziende si sono così trovate improvvisamente a doversi confrontare con numerosi competitori internazionali dotati di una forza lavoro non solo più abbondante, ma soprattutto a buon mercato. Se a questo vantaggio comparativo si aggiungono la riduzione dei costi di trasporto, lo sviluppo di nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione e, ultimo ma non meno importante, l’ampliamento della gamma dei prodotti/servizi commercializzabili, risulta ben chiaro come le aziende nazionali reputino conveniente trasferirsi all’estero per sfruttare tutti questi benefici e sopravvivere in un mercato il cui tasso di competitività è cresciuto sensibilmente. Tuttavia, così come i Paesi in via di sviluppo sono dotati di questo vantaggio comparativo (costituito da una forza lavoro abbondante, non specializzata ed economica), allo stesso modo i paesi industrializzati devono saper sfruttare il loro vantaggio comparativo, rappresentato da tutta una serie di fattori intangibili compresi nella forza lavoro specializzata (a titolo esemplificativo e non esaustivo: know-how, esperienza, istruzione) che spesso sono la materia prima dei processi di produzione trasferiti all’estero. In sintesi, le imprese nazionali si sono trovate di fronte ad un bivio: da un lato, sopravvivere in mercato internazionale sempre più competitivo, cercando di sfruttare tutte le opportunità offerte e, dall’altro, fallire sul mercato interno, ostile ad accettare i cambiamenti in atto. Alla luce di quanto sopra, gli studi economici potrebbero incentrarsi sull’eventuale analisi empirica che metta in evidenza l’esistenza di eventuali relazioni esistenti tra alcune variabili economiche ed il tasso di disoccupazione giovanile in Italia. In particolare, da un lato, si potrebbe considerare lo scenario internazionale, con specifico riferimento al ruolo giocato dai paesi asiatici, generalmente imputati di essere i principali fruitori delle politiche di offshoring e, dall’altro, considerando il contesto interno, con riferimento ad un mix di fattori che la credenza popolare ritiene essere i principali responsabili del fenomeno analizzato. Nel concreto, la ricerca potrebbe svilupparsi considerando l’effetto prodotto: dalla globalizzazione, attraverso l’indice di penetrazione delle importazioni, e dal mercato interno, attraverso alcune variabili reputate (teoricamente, popolarmente o politicamente) responsabili. (continua)

AuthorEmanuele COSTA
Published byIl Nuovo Picchio n° 10/Novembre-Dicembre 2015 con il titolo «Opportunità nascoste, la svolta degli Stati»

3 January 2016

Oltre la crisi c'è speranza?

Carissimo Direttore, ho apprezzato molto la Sua preziosa considerazione economica che, partendo dall’analisi degli accordi di Bretton Woods (1944), ci ha consapevolmente riportato alle potenziali origini dell’attuale e persistente crisi economica. Tuttavia, con questo mio modesto contributo, mi sia consentito (e, conoscendo l’alto riconoscimento che Ella ha per la libertà di stampa e di opinione, ho la certezza che lo sarà) di dissentire, almeno parzialmente dal profilo che la Sua riflessione ha piacevolmente delineato. E’ necessario precisare che ogni decisione di natura economica va sempre calata nel contesto storico in cui è stata adottata e non può considerarsi valida o sostenibile in scenari profondamente mutati rispetto a quelli originari. In altre parole, il meccanismo basato sul cosiddetto “Gold Exchange Standard”, vale a dire la libera e completa convertibilità del dollaro in oro era, già in partenza, viziato da un difetto di base non trascurabile. Infatti, mentre la moneta cartacea (nella fattispecie la divisa americana) poteva essere materialmente stampata dalla Federal Reserve (pur nei vincoli di politica monetaria), il metallo giallo non era disponibile in quantità illimitata, in quanto la sua materiale produzione dipendeva dalla scoperta di nuovi filoni aurei dai quali poter estrarre il metallo prezioso. Quindi, se tutti avessero chiesto la conversione dei “biglietti verdi” in oro, prima o poi si sarebbe attinto all’ultimo lingotto disponibile. Non è, pertanto, un caso se quel meccanismo, da ipotetico stabilizzatore del sistema economico internazionale del dopoguerra, si arrugginisse con il trascorrere del tempo, minando le sue capacità intrinseche in modo così irreversibile da richiedere una profonda revisione, che non poteva essere attuata se non dalla parte di quello Stato che, all’epoca, lo aveva sponsorizzato. Poiché il target alla base della scienza economica è quello di approfondire il comportamento delle diverse variabili per cercare di adottare appropriate politiche in grado di accompagnare il sistema verso l’equilibrio o la stabilità, uno strumento non può mai essere la soluzione valida per l’eternità, specie se cerca, da un lato, di imporre regole fisse sui cambi, la cui fluttuazione è demandata al mercato e, dall’altro, la sostenibilità a decisioni di natura politica che, generalmente, si propongono obiettivi diversi a seconda dello Stato nel quale sono messe in pratica. In sintesi, è stato un tentativo molto ambizioso cercare di conseguire la convergenza di un rapporto di cambio attraverso politiche divergenti. Come recita una delle varianti di un detto popolare, «a furia di tirare la corda, prima o poi si spezza» e la profezia non ha tardato a verificarsi in un sistema imperniato prevalentemente su cambi fissi. La storia, tuttavia, non insegna mai abbastanza e per tamponare gli errori commessi in passato si cerca sempre di correre ai ripari con strumenti diversi nella forma, ma non nella sostanza. In altre parole, si insiste sempre nel pretendere di voler imbrigliare il mercato, il cui spirito libero non ammette limitazioni di sorta. Ciò che, eventualmente, deve essere regolamentato è il comportamento degli operatori e non un meccanismo il cui funzionamento è determinato dall’agire umano. Per dirla come Friedrich August VON HAYEK: «Non importa se si guida a destra o a sinistra purché tutti facciano lo stesso. La cosa importante è che la regola consente di prevedere il comportamento delle altre persone correttamente in tutti i casi, anche se, in un caso particolare, ci sembra ingiusto» (“The Road to Serfdom”, Rouledge, 1944). E poiché gli shock in economia sono sempre in agguato e, peraltro, si manifestano senza alcun preavviso, non ci si può affidare ciecamente a meccanismi di funzionamento del sistema creati senza prevedere, nel contempo, idonei strumenti di salvaguardia. Il sistema ideato e adottato nel corso della Conferenza Internazionale di Bretton Woods era destinato a funzionare in condizioni di stabilità e a fallire miseramente alla prima vibrazione dei mercati. Le crisi internazionali verificatesi agli inizi degli Anni Settanta, infatti, hanno contribuito a dare il colpo di grazia alla fragilità di quell’accordo, costringendo gli Stati Uniti a mettere la parola “fine” alla convertibilità del dollaro in oro. Per rimediare all’insuccesso di quello strumento ne è stato realizzato, pochi anni più tardi, uno simile su scala europea (il Sistema Monetario Europeo) la cui sorte era, ovviamente, già segnata in partenza. Poco più di un decennio dopo, la speculazione sui tassi di cambio ne aveva minato le fondamenta edificate su un terreno costituito da politiche comunitarie che in comune, forse, avevano ben poco.

AuthorEmanuele COSTA
Published byBacherontius n° o4/Dicembre 2015 con il titolo «Oltre la crisi c'è speranza?»